Falcone aveva reso un servizio di incalcolabile portata al nostro Paese, ma fu ripagato con una serie di “schiaffoni” che gli italiani della mia generazione stanno dimenticando mentre quasi tutti i giovani ne sanno poco o nulla.
Il primo colpo fu il più doloroso. Dovendosi designare il successore di Caponnetto, con una decisione a dir poco sconcertante, la maggioranza del CSM (19 gennaio 1988) non nomina il più bravo dell’antimafia, il grande protagonista del maxi. Falcone viene scavalcato da Antonino Meli, un magistrato digiuno di processi di mafia, semplicemente più anziano.
Con questa nomina il pool è morto, il suo metodo di lavoro vincente cancellato. Le inchieste (come trent’anni prima) tornano a essere spezzettate e distribuite a pioggia. Il segnale politico è chiaro: anziché proseguire sulla strada del pool che stava portando alla sconfitta della mafia, si decide di fermarsi. Circondata la fortezza, lo Stato si ritira. Smette di combattere a un passo dalla vittoria. Un suicidio.
Per Falcone anche un’umiliazione profonda. Dirà Paolo Borsellino, nel trigesimo della morte dell’amico, che “il paese, lo stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro cominciò proprio a farlo morire quel 19 gennaio”, con “motivazioni risibili” e “qualche Giuda che si impegnò subito a prenderlo in giro”. Intanto si sviluppa una furibonda campagna di delegittimazione nella quale Falcone viene accusato di nefandezze assortite; per esempio di “maccartismo”, per aver costruito col Maxi “un meccanismo spacciato come giuridico” ma utilizzato per altri fini “dai giudici capitanati” da lui (vedi “Il Giornale” del 19 novembre 1988). Falcone deve anche scontare la “colpa” di non essersi limitato a colpire l’ala militare di Cosa nostra; con lui il pool aveva osato indirizzare le indagini anche verso le complicità esterne (Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania…), cioè verso quella “zona grigia” che è insieme spina dorsale e corazza protettiva dell’organizzazione criminale.
Nel 1989 si apre una torbida stagione di dossier, di corvi e di veleni. Cinque esposti anonimi accusano falsamente Falcone, insieme ad altri, di avere consentito al “pentito” Salvatore Contorno di tornare in Sicilia per commettere numerosi omicidi.
Tra gli scogli antistanti una villetta all’Addaura affittata da Falcone per il periodo estivo, viene piazzata una borsa per colpirlo con un potentissimo ordigno esplosivo. L’attentato fallisce per puro caso, ma viene vigliaccamente fatta circolare la voce (perfino nei corridoi del CSM) che Falcone se l’era organizzato da solo per favorire la propria nomina ad Aggiunto nella Procura di Palermo. Qui Falcone subisce una penosa odissea di mortificazioni da parte di un capo che lo emargina e lo costringe ad imbarazzanti ed estenuanti anticamere sotto gli occhi di tutti. Il sindaco Orlando lo accusa pubblicamente di aver tenuto carte importanti in un cassetto. Falcone si candida al CSM ma i colleghi magistrati della sua corrente gli preferiscono un altro e non lo votano.
Non mancano “probi cittadini” che scrivono ai giornali protestando per il fastidio causato alla quiete cittadina dalle auto a sirene spiegate di Falcone, invitato a togliere il disturbo relegandosi in qualche ghetto “fuori porta”. L’aria a Palermo si fa irrespirabile.
Alla fine Falcone decide di “emigrare” e di chiedere una sorta di asilo politico-giudiziario al Ministero della giustizia di Roma, dove continua con determinazione il suo impegno antimafia. Le accuse e gli attacchi ingiusti riprendono con toni di inusitata asprezza quando si avvicina il giudizio definitivo della Cassazione sul maxiprocesso, mentre Falcone è candidato a dirigere l’istituenda Procura nazionale antimafia.
Il 29 ottobre 1991, sul quotidiano “Il Giornale di Napoli” diretto daLino Jannuzzi compare un articolo (non firmato perciò riferibile al direttore) dal titolo Cosa nostra uno e due. In esso Falcone viene definito uno dei “maggiori responsabili della débacle dello Stato di fronte alla mafia”. E se Falcone fosse stato nominato PNA, sarebbe stato necessario “guardarsi da due ‘Cosa nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”.
Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione conclude con sentenza definitiva l’iter processuale del “maxi” e sostanzialmente conferma le condanne del primo grado. Ripetiamolo: finalmente (dopo anni di tentativi giudiziari spesso vani) cessa la vergognosa stagione dell’impunità di Cosa nostra. Nessun risultato avevano ottenuto i pesanti tentativi di aggiustamento del processo posti in essere attraverso vari canali dai boss di Cosa nostra. Uno smacco e un affronto intollerabili. La lacerazione di un patto di scambio nel quale i boss avevano creduto, garantendo agli affiliati l’esito favorevole del processo.
Si apre, per Cosa nostra, la stagione della “resa dei conti”, sul versante “politico” e su quello “giudiziario”. Qui il furioso messaggio di rabbia di Cosa nostra inizia proprio con la strage di Capaci.
E Giovanni Falcone torna ad essere considerato (da molti con laida ipocrisia) un eroe: ma solo dopo morto, dimenticando con colpevole disinvoltura i torti che aveva dovuto sopportare in vita.