Pippo Fava, l’artigiano da cui ho imparato a fare il cronista
Parliamoci chiaro: fare il giornalista è un mito cadente. Per me, in realtà, quando ho iniziato a fare questo nella vita, era semplicemente un “bel mestiere”. Parliamo di quarant’anni fa. Ma coraggio, potrebbe ritornare ad esserlo. Vedevi il mondo, mettevi il naso nelle cose di interesse pubblico e facevi la cronaca.
Siccome sono nato a Catania alla fine degli anni 50 e ho iniziato a fare cronaca a poco più di venti anni d’età, sono stato un ragazzo fortunato: c’erano un sacco di cose da raccontare, non c’era il web e i cellulari, ma tante cose storte da svelare, tante verità taciute da scoprire. Era bello, però solo se eri libero di scrivere. E qui la storia diventa difficile da raccontare.
Dove, come, con chi e quando ho iniziato a fare il cronista? Lo racconta una storia a fumetti che uscirà in allegato al Fatto quotidiano martedì 12 maggio, nel quadro di una collana intitolata Chiedi chi erano gli eroi.
L’hanno scritta e disegnata Luigi Politano e Luca Ferrara. Titolo del volume: Pippo Fava, Lo spirito di un giornale. In allegato a quel libro ho spiegato (insieme ad altri protagonisti di quella avventura e del mensile I Siciliani) come ho iniziato a fare il cronista, nella Catania degli anni 80, insieme a un gruppo di miei coetanei e avendo la immensa fortuna di imparare a bottega da un bravo artigiano del giornalismo come Giuseppe Fava, detto Pippo, ucciso il 5 gennaio 1984 dalla mafia proprio per le cose che ci aveva insegnato a fare: pensare e scrivere liberamente.
Quella che segue, tratta dal libro a fumetto su quella nostra storia, è la storia di come ho conosciuto Fava, che a guardare bene le cose non era un “eroe retorico”, ma solo un professionista che credeva in quel che faceva. Ecco come l’ho conosciuto e il momento in cui ho iniziato a imparare da lui.
“Buongiorno, direttore. Vorrei fare il giornalista”. La mia cronaca iniziò con una telefonata e nel più scontato dei modi.
“Portami qualcosa che hai scritto”, aveva risposto Pippo Fava.
Quello appena passato, il 1979, era stato l’anno dedicato dall’Onu all’infanzia. E il tema mi sembrava d’attualità. Nei giorni successivi a quella imbarazzata telefonata avevo scritto un pezzo, anzi un’arringa, sull’infanzia abbandonata, consultando statistiche sulla fame nel mondo e sullo sfruttamento del lavoro minorile nel Sud d’Italia. E avevo riempito quattro facciate, scritte in spazio 1, pigiando i tasti della mia Olivetti lettera 32.
Poi ero andato al giornale, a Catania in una traversa del quartiere Cibali, di lì a poco la mia prima redazione. Si chiamava Giornale del Sud. Era il marzo 1980 e avevo 21 anni. Stringevo in mano il pezzo che Pippo Fava aveva chiesto. Quel quotidiano non era ancora nato, ma i corridoi erano già affollati di miei coetanei.
“Buongiorno, direttore”.
La stanza era piena di fumo.
Pippo lesse le righe del dattiloscritto. Quindi, si levò gli occhiali da presbite, accese una Super senza filtro, s’accarezzò la barba. E cominciò a disegnare su un foglio: tracciava facce scavate, allucinate. Sembravano autoritratti.
Mi aspettavo che da un momento all’altro dicesse: “Il pezzo fa schifo…”.
“A te piacciono i bambini, vero?”, disse invece sorridendo. Poi, chiese, quasi sfidandomi: “A parte i bambini, perché vuoi fare il cronista?”.
“La realtà qui attorno non mi piace… e poi anche perché ci credo”.
“Credi in che cosa?”.
“Nel fatto che questo mestiere è utile. Se uno scrive cose interessanti, può scuotere la gente…”.
“Che vuoi dire? I giornalisti non sono dei missionari!”.
“No, ma a me piacerebbe che qualcuno, leggendo le cose che scrivo, fosse più cosciente di quanto gli accade intorno”.
“L’importante è che dopo aver letto il giornale ne sappia di più, prima di tutto. Ma certo, qui non può bastare…”, concordò.
Dovevo avere un aspetto goffo. Pippo sorrideva. E io balbettavo: “Da bambino, anziché fantasticare di diventare astronauta o chirurgo, io immaginavo di scrivere per cambiare l’umanità…”.
“Va bene, provaci” disse Pippo liberatorio. “E dammi del tu. Sei nella stessa barca, ora”.
Chiesi: “Io non credo che tu farai un giornale ufficiale. Non è così?”.
“No, certo. Spero anzi che qui riusciremo a scrivere un giornale spietato, irriverente. Dovremo trasformare queste pagine in un cazzotto nello stomaco per i potenti”.
Pippo rise e mi guardò con l’espressione di un pescatore che si è trovato un altro pesce appeso all’amo.
Poi, cambiò tono: “Devi subito iniziare a girare per la città e imparare a vedere con i tuoi occhi. Vieni domani. Scriverai di cronaca”, disse.
“Ma ho un esame all’università”, obiettai, chiedendogli di pazientare.
“Beh, allora ci vediamo dopo l’esame”, sorrise Pippo.
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