Mafie ed economia legale ai tempi del Covid-19: che fare?
Vivere nel mezzo della pandemia da Covid-19 del XXI secolo non può esimerci dall’occuparci di altri temi, ugualmente pericolosi e dannosi.
La criminalità organizzata di stampo mafioso, infatti, approfitterà degli effetti travolgenti di questa pandemia per allargare e rinforzare anche la sua presenza nell’economia legale e illegale.
L’impresa-stato
Va detto subito, come ci insegna il prof. dalla Chiesa nel libro “L’impresa mafiosa”, che l’impresa mafiosa o a partecipazione mafiosa non è solo un’impresa che persegue fini illeciti e/o usa mezzi illeciti o illecitamente accumulati, ma è un’impresa-stato. È cioè un’articolazione, uno strumento operativo di una associazione, quella mafiosa, che storicamente si reputa e si comporta come forma alternativa di Stato.
Perché questa precisazione? Perché ne consegue che l’impresa mafiosa, in quanto impresa-stato, trasferisce nel territorio in cui opera i propri metodi, violenti. Ciò significa che è agente di trasformazione sociale. E questo è importante da sottolineare, tanto più nei piccoli comuni, quelli in cui la presenza dello Stato è minima o timida, o più facilmente corruttibile.
Con questa prospettiva diventa prioritario mettere in pista tutto ciò che è possibile per evitare che la massa di soldi pubblici che il Governo sta mettendo in circolazione nel nostro sistema economico venga intercettata dal sistema mafioso per raggiungere i propri fini illeciti. Ciò significa intervenire affinché l’organizzazione mafiosa arretri sul terreno dell’aggressione nell’economia legale.
L’economia in condizioni normali, pre-pandemia
Per parlare, però, di infiltrazioni mafiose nell’economia legale in un periodo di pandemia è importante, propedeuticamente, osservare come funziona il nostro tessuto imprenditoriale, soprattutto quello del nord Italia, in periodi di normalità, per evitare di cadere nell’errore ingenuo o indulgente di leggere il mondo in maniera manichea: da un lato i mafiosi, dall’altro tutti gli altri, compatti, determinati e risoluti a difendere lo Stato di diritto. Non è così.
Basta introdurre una serie di definizioni per accorgerci che non sempre l’imprenditore del Nord può essere considerato una vittima della criminalità mafiosa. Taluni imprenditori non si limitano a subire l’organizzazione mafiosa, ma fanno affari con la stessa, prendendo l’iniziativa di contattare i mafiosi per vantaggi economici. Nel caso della banca della ‘ndrangheta a Seveso, alcuni imprenditori contattavano i mafiosi per riciclare denaro proveniente da loro azioni di evasione fiscale: la mafia come professionista che offre servizi.
L’economia “non raccontata”, infatti, è costituita da: l’impresa dell’economia sommersa (con annessi reati quali la violazione fiscale e contributiva, il pagamento non regolare dei lavoratori, in nero. Tutte attività che violano le norme per garantire la concorrenza); l’impresa criminale, le cui finalità e modalità attuative sono contrarie alle norme: traffico di stupefacenti e di armi, contrabbando, estorsione, usura, gioco d’azzardo, contraffazione di prodotti (oggi, soprattutto, della filiera sanitaria o di quella alimentare!), acquisizione di appalti in violazione di norme di legge, reati contro il patrimonio, etc.; e, infine, l’impresa mafiosa o a partecipazione mafiosa, la prima ha origine o è finanziata da capitali mafiosi, mentre la seconda nasce come impresa “normale”, nella piena legalità, ma ha successivamente subito una compartecipazione mafiosa, violenta o meno.
Sono frequenti i casi in cui è l’azienda stessa che spalanca le porte all’ingresso di un socio mafioso; in questo caso non si presuppone l’esercizio di un’azione violenta, ma si determina il convergere di una reciprocità di scopi, quelli dell’imprenditore senza scrupoli e quelli mafiosi. È un tipo di struttura economica che, apparendo estranea all’ambiente criminale, si presta a essere utilizzata come impresa di servizio degli interessi mafiosi, come mezzo per investire in modo pulito i propri capitali. La modalità con cui l’organizzazione mafiosa interviene nella governance di un’impresa è diversa: interposizione di un prestanome, nomina di amministratori di fiducia, liquidazione o estromissione dei soci originari, oppure ancora con schemi di occultamento più complessi come la creazione di lunghe catene societarie, con società fiduciarie, anche estere, offshore, o con la segregazione dei capitali in trust. Lo scopo è sempre di separare, e quindi, occultare, l’identificazione del titolare effettivo della società.
Va detto che uno degli sforzi da fare è proprio quello di rendere effettivo ed efficace il D. Lgs 90/2017 relativo alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose, che ha modificato la normativa antiriciclaggio (D. Lgs. 231/2007), prevedendo l’istituzione di un’apposita sezione del Registro delle imprese, al cui interno vanno indicate le informazioni sulla titolarità effettiva di persone giuridiche e trust.
È la stessa Commissione Parlamentare Antimafia a definire la questione quando dice, nella Relazione conclusiva approvata nella seduta del 7 febbraio 2018, che «la formazione di imprese a partecipazione mafiosa costituisce il frutto degli intensi e stabili rapporti creati dalle organizzazioni criminali con i più vari settori dell’economia legale, e fondati non solo su atti violenti, ma anche su una reciprocità di interessi e su una compenetrazione di capitali e competenze».
Il contesto economico durante la pandemia
Fatte queste premesse, si evince che, da un lato, abbiamo un sistema economico che, in parte, non è vittima della criminalità organizzata di stampo mafioso, evidenziando, soprattutto nel nord Italia, che il problema da affrontare non è solo l’estensione delle mafie (la qualcosa sarebbe già preoccupante), ma è, ed è ancor più rilevante, l’intreccio tra l’economia illegale e quella legale (tra confusione, compenetrazione, ibridazione, come ci insegna il prof. Rocco Sciarrone). Questo intreccio chiama in causa uno scarto tra regole formali e norme sociali, e sottolinea, cioè, una bassa fiducia nello Stato di diritto, oltre ad evidenziare un’alta tolleranza rispetto ai comportamenti illeciti.
Dall’altro abbiamo un contesto di grave crisi i cui elementi richiamano quelli della crisi del 2008 da cui, tra l’altro, non eravamo nemmeno usciti completamente, e che ora ritroviamo in forma più accesa: scarsità di lavori pubblici, riduzione importante della liquidità, incertezza in tema di credito bancario, contenimento, se non azzeramento, dei profitti, a cui va aggiunto il problema della tutela della salute dei lavoratori e l’esperienza di vissuti dolorosi nei loro contesti familiari, coinvolti nella pandemia (con conseguenti stress psicologici e sociali).
Ciò significa osservare come funzione la famosa area grigia, composta anche da rappresentanti del mondo economico: imprenditori, professionisti, etc., che opera in periodi di normalità. Quell’«area grigia» che spesso non è creata dai mafiosi, ma in cui semplicemente la mafia si insinua perché conscia dei vantaggi che ne derivano.
Arrestare l’aggressione mafiosa in questo periodo pandemico, quando la cultura strisciante di fondo è quella di un normale e tollerato intreccio tra il mondo legale e illegale, è una mera illusione, ne mancano le condizioni di base: la fiducia nello Stato di diritto e il ribrezzo dell’antistato mafioso.
Uno studio di Assolombarda del 2015 ha misurato la percezione sviluppata dagli attori economici (imprenditori e manager) in merito alla dimensione e natura reale del fenomeno mafioso in Lombardia. Il risultato è sconsolante: bassa.
Cosa fare? Alcune proposte, a diversi livelli
Con queste premesse, sarebbe un gravissimo errore credere che la sola risposta repressiva possa essere la soluzione. Quando Forze dell’Ordine e magistratura intervengono, per definizione, lo fanno a posteriori: a danno avvenuto, a furto subito, con le macerie in strada.
Serve agire in ambito preventivo, nei controlli e sotto l’aspetto culturale, o, come suggerisce la stessa Commissione Parlamentare Antimafia, sotto un profilo di auto-profilassi.
A livello nazionale
Le istituzioni nazionali, Governo, Banca d’Italia, intermediari finanziari (il cui ruolo in questo caso sfiora quello del pubblico ufficiale, volente o meno), devono garantire, innanzitutto, tempestività e immediatezza nell’erogare la liquidità necessaria per non far cadere le imprese nella trappola della dipendenza ai servizi mafiosi, che di liquidità ne hanno a sufficienza, e il cui problema principale è ripulire quelle ingenti somme di denaro di provenienza illecita, risolvibile proprio con l’usura.
Direzione Nazionale Antimafia, Procure Distrettuali, Prefetture, DIA, Forze dell’Ordine, devono agire, in parallelo, sul sistema dei controlli e della repressione: la normativa attuale ha già enormi pregi, per lo meno in termini di antiriciclaggio e di segnalazione delle operazioni sospette (SOS); è evidente, però, che sta ai singoli enti coinvolti lo sfruttamento sino all’esasperazione di queste armi affilate a nostra disposizione.
Le varie proposte, poi, di questi giorni, arrivate dal Procuratore Nazionale Antimafia de Raho e dai Procuratori di Milano e Napoli sono fondamentali: la previsione di conti correnti dedicati per tracciare i movimenti del denaro, le autocertificazioni patrimoniali, fiscali e reputazionali, gli obblighi di rendicontazione dei soldi ottenuti, la creazione di una fattispecie di reato per difendere questo flusso enorme di liquidità, con pene adeguate all’eventuale reato riscontrato (a motivo del fatto che il sistema italiano andrà in contro a uno sforzo enorme nel sopportare questi costi volti a garantire le continuità aziendali), la punizione dell’impresa mafiosa che riesce ad accaparrarsi anche importi minori, pensate ai finanziamenti sotto i 25.000 euro (che deve essere perseguitata e aggredita a prescindere dagli importi).
I controlli, dunque, sono fondamentali, e dovranno avvenire in parallelo rispetto all’erogazione dei soldi, per non diventare strumento di rallentamento, quantomai pericoloso in questo momento storico. Come accennato, uno dei rischi più alti di questo periodo è il reato di usura: le mafie dispongono di circa 30 mld/anno di euro ottenuti dalla vendita della droga, reinvestire questi soldi prestandoli ad imprenditori, con tassi anche del 20%, già soffocati dalla morsa della mancanza di liquidità e di linee di credito, significa mettere le pedine in scacco.
A livello locale
In tale contesto entrano in scena anche gli attori locali, sia regionali che comunali. La raccolta di indicatori spia che riescano a indicare quali attori economici sono a rischio usura è un’attività essenziale che può essere realizzata riunendo intorno a un tavolo gli attori principali: gli enti locali, i Confidi, gli istituti di credito, i rappresentanti delle categorie datoriali, gli ordini dei professionisti, etc. Con l’obiettivo di unire le forze per identificare i soggetti economici a rischio usura, da tutelare, per fare in modo che alla loro porta bussi prima lo Stato della mafia.
Questo sforzo di raccolta di informazioni non è da considerare secondario. Quali sono, infatti, le caratteristiche delle imprese mafiose o a partecipazione mafiosa che distorcono la concorrenza ponendole in una condizione di privilegio e declassando le imprese sane in una posizione di svantaggio competitivo tale da non riuscire a sopravvivere giocando onestamente? Non solo i mezzi violenti usati dai “soci” mafiosi per ottenere i loro obiettivi; non solo l’assoggettamento e l’omertà; non solo la presenza di un vero e proprio apparato militare, aspetto discriminante rispetto a qualsiasi altro tipo di impresa legale. Ciò che fa la grande differenza sono le possibilità relazionali-informative. Opportune per ottenere non solo i profitti e i vantaggi illeciti di cui detto, ma perché è grazie all’informazione capillare, avvolgente e pervasiva che la mafia accumula risorse, profitti e, soprattutto, potere e controllo territoriale e sociale.
Pensate, ad esempio, all’identificare il nome di imprenditori in difficoltà, da andare a trovare offrendo denaro in prestito; o all’informazione sui dati familiari di un impiegato che blocca una certa pratica in Comune; quella su un magistrato che svolge una certa inchiesta; il nome del commissario del concorso pubblico avvicinabile per una raccomandazione; il nome del perito corruttibile che lavora nei punti deboli dell’assessorato all’urbanistica. Per oliare questa funzione basilare, ci spiega ancora il prof. dalla Chiesa nel libro sopra citato, ci sono azioni ben mirate e complesse strategie di penetrazione in uffici, banche, ospedali: il trasferimento della persona giusta in un reparto della polizia locale addetto ai controlli, l’appalto delle pulizie in un palazzo di giustizia, la promozione a primario del proprio uomo, utile anche per pilotare appalti e forniture così come per curare un latitante sotto falso nome.
Ecco allora, un punto chiave: questa asimmetria informativa, per riprendere un concetto economico, va colmata, va equilibrata, per permetterci di combattere sullo stesso piano, con la stessa forza. Realizzare un sistema di raccolta di informazioni degli anelli economici deboli permette allo Stato di contattare quegli imprenditori, prima ancora che vengano contattati dall’anti-Stato. E per segnalare alle Procure distrettuali competenti eventuali casi sospetti. Il tema dell’usura è centrale anche nella legge regionale lombarda 17/2015 che ha diversi articoli dedicati all’usura.
L’ANCI può avere un ruolo politico importante nei confronti delle proprie Regioni per chiedere il finanziamento di leggi in tema di usura. Non va sottovalutato il ruolo della Polizia Locale che conosce il territorio e che può diventare uno snodo informativo importante, se ben addestrato su questa materia (la legge regionale lombarda, la 17/2015, prevede uno specifico articolo sul tema, l’ANCI potrebbe fare pressione politica affinché venga finanziato).
Sempre a livello territoriale, si può pensare a sportelli usura e racket che non siano, però, di sola facciata ma che mettano a disposizione degli attori economici altrettanti professionisti, competenti ed esperti.
Nei Tavoli sopra citati si può anche ragionare con le associazioni di categoria e gli ordini professionali per spingerli ad alzare l’asticella della tollerabilità e sanzionare (o garantire premialità, a seconda del punto di vista) comportamenti illeciti dei propri aderenti favorendo i controlli tra pari, forse più importanti rispetto ad altri controlli, frazionati in troppi rivoli.
Certo, deve essere sviluppata in contemporanea un’offensiva importante in termini di formazione di una sensibilità sociale e culturale che alzi il livello di tollerabilità all’illegalità, dentro e fuori dell’impresa.
Va da sé che, a fronte di un intreccio tra l’economia legale e quella illegale, il mondo economico del nord Italia è composto anche da aziende sane, efficienti, competitive, etiche e responsabili (CSR), la cui voce risuona troppo poco a livello nazionale e il cui sforzo reputazionale viene schiacciato dai “colleghi” spregiudicati.
Eppure, a titolo d’esempio, esistono numerosi strumenti importanti che, tutt’oggi, vengono sottovalutati o mal usati dagli attori economici: penso all’applicazione del D.Lgs. 231/2001, allo sviluppo del relativo Modello Organizzativo, dell’Organismo di Vigilanza e del piano di risk assessment, che non può essere un mero atto di compliance, ma deve insinuarsi in tutte le pieghe societarie e impattare, da un lato, sull’organizzazione della realtà aziendale, dall’altro, sulle scelte strategiche dei livelli più alti. Senza un impatto su queste due variabili aziendali, l’applicazione della 231 lascia il tempo che trova e non serve da gate-keeper all’aggressione mafiosa. Non solo. Esistono standard nazionali e internazionali innovativi come, rispettivamente, il rating di legalità e l’ISO 37001 che, se usati correttamente, possono essere veicolo di cambiamenti culturali e mentali necessari per rendere l’azienda resiliente non solo ad aggressioni mafiose ma anche a gravi periodi di crisi economiche generali e globali come quella che viviamo ora. Sono le aziende più flessibili che si piegano e non si spezzano.
In ambito pubblico, le stesse richieste devono essere applicate al Piano Triennale Prevenzione Corruzione (PTPC) e al Programma Triennale Trasparenza e Integrità (PTTI). La diffusione culturale in tema di anticorruzione, autostrada per le organizzazioni mafiose, derivante dalla corretta applicazione di questi strumenti dovrebbe rovesciarsi in ogni settore e in ogni angolo della Pubblica Amministrazione, in particolar modo in quello degli appalti.
È un punto chiave: per riprendere a crescere, i lavori pubblici svolgeranno in futuro un ruolo strategico. Ciò non significa, però, andare in deroga o pensare a Commissari straordinari che vadano a stravolgere l’attuale normativa. Chi chiede la “sospensione” del Codice Appalti, o di sue parti, evidentemente non sa nulla o fa finta di non sapere nulla di quella cultura di intreccio tra legale e illegale. Il 2 maggio l’ANAC ha messo online un documento che spiega con grande chiarezza come velocizzare e semplificare gli appalti pubblici, sfruttando articoli del Codice che offre, già oggi, numerose possibilità per ridurre i tempi delle procedure di gara. Lo stesso documento fornisce una ricognizione delle norme vigenti per aiutare le stazioni appaltanti a far fronte all’emergenza sanitaria in atto e in tutte le ipotesi in cui si renda necessaria, in presenza dei presupposti di legge, un’accelerazione o una semplificazione delle procedure di gara. Dunque, non solo le maglie non vanno allargate, ma vanno rinforzati i controlli da parte degli enti locali, evitando di delegare l’importante ruolo da controllore a funzionari totalmente inesperti di organizzazioni mafiose, e mettendo in campo persone competenti in tema di lotta alla criminalità organizzata.
Infine, chiamo in causa anche un ultimo e fondamentale attore locale: la stampa. Fatta salva la libertà di stampa, i vari editori locali dovrebbero capire l’importanza di seguire la questione dei finanziamenti a seguito del Covid-19, per darne riscontro in termini positivi e negativi. Uno dei motivi per cui l’organizzazione mafiosa agisce soprattutto nei comuni più piccoli è anche perché le sue malefatte non trovano risalto nella stampa locale, se non in trafiletti che nessuno legge, garantendo loro una condizione favorevole di invisibilità.
Il già citato prof. dalla Chiesa, ad un evento pubblico di qualche mese fa, disse: «quando lo Stato decide di fare lo Stato, non ce n’è per nessuno».
Il mio augurio è che tutti, ad ogni livello, decidiamo di fare lo Stato. Di diritto.
* Consulente della Commissione parlamentare antimafia
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