“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo…” (Aldo Moro alla moglie)
Sono passati 42 anni dalla morte di Aldo Moro.
Anche questo anniversario rischia di allontanarsi fra parole ripetute e usurate, oppure nella riproposizione dei dubbi irrisolti che riguardano i protagonisti della vicenda giudiziaria.
Non sembra, invece, essere avvertita come esigenza comune l’analisi più profonda dei contenuti dell’esperienza morotea, dei suoi effetti sulla società italiana e, separata da ciò che è oramai contingenza storica, della sua utilità anche per il tempo attuale.
A chi per storia personale o per studi universitari ha l’opportunità di rileggere o di riascoltare Moro, giurista e politico, spesso viene chiesto il motivo per cui, oltre alla tendenza puramente celebrativa, vi sia un sostanziale “silenzio” politico-culturale intorno ai tratti qualificanti del suo pensiero.
E’ un interrogativo che merita qualche risposta. Non tanto per compensare il senso di vuoto, di incompiutezza, di sottile rimorso che accompagna chi ha vissuto quella stagione politica e ha conosciuto direttamente il valore dello Statista, quanto, invece, perché è opportuno stimolare e soddisfare la ricerca di coloro che per età non hanno potuto apprezzare la finezza del pensiero moroteo, il suo costante impegno etico, le prospettive del suo agire politico.
E’ questo un aiuto proficuo per chiunque oggi vive il paradosso di avere grandi possibilità per acquisire informazioni storiche e culturali, ma che, contemporaneamente, sconta carenze di metodo, di educazione, d’indirizzo che impediscono il trasformarsi di quella potenzialità in conoscenza effettiva.
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Spesso si usa dire che i cittadini sono invitati a diventare artefici diretti della politica.
E’ un auspicio condivisibile, ma che non può prescindere da una necessità ancora più urgente: una classe dirigente deve saper fare formazione (che è anche studio rigoroso e critico del proprio passato). E, quindi, deve creare le premesse perché ogni cittadino consideri importante dare e, aggiungo, pretendere dagli altri, giudizi informati e coerenti con la storia della propria comunità.
Il senso diffuso di separatezza fra corpo sociale e rappresentanti delle Istituzioni nasce proprio da questo vuoto cognitivo, dall’idea che l’azione politica sia un’improvvisazione estetica o, con effetti peggiori, coincida con la semplice ricerca di un risultato demoscopico.
Sono interpretazioni che spesso si accompagnano a un’altra convinzione, quella per cui la coerenza sui principi sia concetto superato, e non, invece, indispensabile chiave di lettura per il presente e il futuro. In base a tali considerazioni si dovrebbe allora concludere -e sarebbe esercizio di onestà intellettuale- per l’inattualità del pensiero e della figura di Moro sul piano dell’etica e del metodo.
D’altra parte, l’intento di “santificare” l’Uomo, che fu immediato dopo la sua tragica fine; la scelta di preferire approcci puramente agiografici sono stati funzionali a raggiungere due scopi.
Il primo è stato quello di semplificare, sino al punto di banalizzarla, una delle vicende più tragiche e complesse della storia dello Stato italiano, caratterizzata da ciniche convergenze di poteri nazionali e internazionali che, le indagini giudiziarie e storiche hanno reso, nel corso degli anni, meno incomprendibili, pur rimanendo ampi gli spazi dell’oscuro e dell’indicibile.
Il secondo effetto è stato quello di depotenziare l’essenza della prospettiva morotea, vale a dire il suo essere elemento di “contraddizione” e di rottura rispetto agli schemi del sistema ideologico e culturale della sua epoca. Per capire, quindi, il valore propositivo della scelta dialettica di Moro si deve ricordare quale fosse il contesto sociale e politico in cui si inerpicò la sua azione politica.
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Tutti gli storici concordano sul fatto che il valore “sacrale” della Costituzione sta nella straordinaria opera di sintesi realizzatasi fra umanesimo cristiano e pensiero socialista.
Non sfuggiva ai rappresentanti di quelle distinte, ma non ancora confliggenti, visioni del mondo anche il valore della “esperienza”, e cioè il sapere acquisito attraverso la “pratica” delle cose che viene fatta da noi o da altri. Ma questa idea della “prova”, del saper farsi carico del dato concreto, senza il quale non si raggiungono conoscenza e risultati utili per la propria comunità, non è stata sempre perseguita (o adeguatamente sviluppata) nelle vicende storiche successive alla Costituzione.
Tra le cause di quelle promesse mancate vi fu il fatto che la classe dirigente e intellettuale che si era formata prima sotto il fascismo e, poi, nella lotta di Resistenza, non riuscì a opporsi alle forze ideologiche e separatrici conseguenti alle vicende “post” belliche.
Mi pare, quindi, corretta l’idea secondo la quale nelle fratture che si crearono nel nuovo sistema di equilibri e contrapposizioni internazionali precipitarono anche coloro che, in precedenza, erano pur riusciti a dare, con la Costituzione, forma e coerenza normativa a complementari visioni dell’uomo e della comunità.
Pochi uomini, e fra essi Moro, ebbero avuto le capacità e, soprattutto, il coraggio di continuare a percorrere la strada dell’elaborazione politica che, rimanendo sempre attenta alla realtà, mirasse a far convergere visioni differenti verso sintesi di alto profilo (che sono ben diverse dai compromessi al ribasso). Quegli sforzi e quelle scelte sono avvenute in un’atmosfera difficile, complessa, in cui, per dirla con Tullio De Mauro, aleggiava un generalizzato “spirito di scissione tra un’Italia che ingoiava tutto pur di non essere comunista e un’altra Italia che ingoiava tutto pur di esserlo”.
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Orbene, a distanza di oltre 40 anni dal maggio 1978, volendo indicare uno spunto di riflessione non rituale, è interessante soffermarsi su una parte dell’ultimo discorso di Moro (28 febbraio 1978) per il carattere paradigmatico di alcune sue riflessioni politico-istituzionali.
In quegli anni di emergenze economiche e caratterizzati da inquietanti forme di “impazienza e di rabbia” pronte a scatenarsi, Moro comprende lucidamente che la politica dove offrire un programma che risponda alle esigenze reali della società. Avverte anche la necessità di un “tempo di correzione” affinché i forti contrasti presenti nella comunità siano ricondotti nell’alveo delle azioni costruttive e istituzionalmente corrette. Malgrado vi siano – sempre per dirla con Moro – alcune “punte acute” di disagio sociale, e anche nell’immediato particolarmente “pungenti”, egli invita a volgere lo sguardo oltre. E cioè verso quelle forme endemiche di anarchismo, di rifiuto dell’autorità e del vincolo, di deformazione dell’idea della libertà che, all’epoca, non sembrano più in grado di accettare l’idea della solidarietà sociale come valore condiviso e imprescindibile.
L’intelligenza politica di Moro sta, quindi, non solo nel non sfuggire ai segnali provenienti dalla comunità, ma nel saperli mettere in relazione con la particolarità dell’Italia che egli descrive, e non a caso, un Paese dalla “passionalità continua e dalle strutture fragili”. Questa condizione peculiare della società italiana (da mettere in relazione al più ampio contesto internazionale, cristallizzato nelle contrapposizioni) non impedisce a Moro di agire sulla base di una intuizione strategica e fortemente innovativa per quegli anni: nell’esperienza democratica e istituzionale, “opposizione” e “maggioranza” sono da ritenersi entrambe “sacre” perché “intercambiabili”, pur sulla base della diversità delle proposte. Da ciò consegue che la dialettica e la responsabilizzazione governativa diventano strumenti non solo per affinare la capacità di risposta delle differenti forze politiche alle esigenze dei cittadini, ma per contrastare ogni forma di potere che si mantiene e si avvantaggia proprio grazie alla contrapposizione ideologica.
Come metodo, Moro rigetta l’idea dell’azione politica condizionata ad avere “certezze” sia per l’oggi che per il domani, a una convenienza valida sia per l’immediato che per il futuro.
E così conclude: “se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo a questo domani, tutti accetterebbero, ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso; si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”.
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Rileggendo le parole di Moro, si avverte come, al di là di quegli aspetti della sua esperienza politica oramai storicizzatisi, vi siano contenuti metodologici a cui guardare anche per il tempo attuale.
Penso alla straordinaria importanza del concetto di “radicalità” morale e politica, intesa come presupposto per ogni attività progettuale a favore della comunità.
Da Moro, come da tutti coloro che hanno partecipato positivamente al ribollire culturale degli anni ’60-’70, ci viene consegnata una definizione molto coinvolgente di ciò che significa essere davvero “radicali” nei propri principi. Significa, anche sotto il profilo etimologico del termine, avere “radici” profonde; che permeano terreni culturali diversi e che sanno coglierne il meglio per un obiettivo comune; radici che permettono di trasmettere significati oltre il tempo che è dato vivere.
Essere “radicali” significa connotarsi per un atteggiamento culturale che comprende l’intransigenza verso se stessi prima ancora che verso gli altri. Significa, soprattutto, essere diversi dai “settari”, da coloro, cioè, che sentono di doversi affidare ai dogmi perché sono incapaci di leggere la complessità dell’esistente, e di offrire prospettive comprensibili e accettabili ai propri simili.
D’altra parte, recenti studi storico-politici sul periodo storico drammatico vissuto dall’Italia tra la fine degli anni 60 e gli anni 70, evidenziano come quella che venne definita “strategia della tensione” dopo il tragico 12 dicembre 1969 fu successiva alla strategia “dell’attenzione” che proprio Moro inaugurò con un suo intervento alla riunione della Direzione della Democrazia Cristiana, il 21 febbraio 1969, per poi riprendere il concetto il 15 giugno successivo Bari (congresso regionale) e poi, il 29 giugno a Roma, in Consiglio Nazionale.
Quell’attenzione strategica poneva il tema del rapporto corretto con il partito comunista sulla base della “reciproca considerazione” e della “dialettica democratica”.
Ho voluto citare quell’esempio di storia anche lessicale perché certe espressioni svelano non solo un certo tipo di percorso politico, ma anche un moto dell’animo, una predisposizione etica.
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Mi paiono elementi di riflessione molto interessanti anche per l’oggi oscuro, malgrado le molte luminosità artificiose, se, sul piano umano e politico, si afferma di ridare centralità ai valori della persona, del ragionamento, della qualità relazionale. Senza che questo progetto esistenziale venga comodamente interpretato come una manifestazione di ingenuità o d’ignoranza rispetto alle ineluttabili “regole” della vita politica.
In questo senso, le durissime parole che Moro rivolge al suo partito in una delle sue ultime lettere (“…io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa..” 24.4.1978) non sono lo sfogo amaro di un uomo morente, ma un monito esistenziale che va oltre la sua storia.
Hanno in sé la forza del tratto profetico. Segnano un modo di essere, di pensare, di agire.
Indicano le radici della responsabilizzazione critica, del desiderio di attingere a un sapere “altro”. Significano che acquisire conoscenza e duttilità intellettuale sono strumenti per rispondere alle domande di “senso” che, spesso con fatica o tra contraddizioni, provengono da generazioni di giovani, da ampi strati sociali orfani di riferimenti morali.
In uno dei passaggi più umanamente intensi, Moro scrive alla moglie: “tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta”, e sembra una metafora del possibile rapportarsi di ognuno con la storia personale e collettiva. Di certo, tanto il ricordare con cupezza la perdita enorme dello Statista, quanto il celebrarla con la freddezza del rito significa tener ancora chiusa quella “porta”.
Significa contribuire a limitare, tenendolo nella ristrettezza temporale e fisica in cui lo costrinsero per 55 giorni i carcerieri, a più e diversi livelli, la forza e le potenzialità di un metodo di pensiero.
Significa ridurre ad un’ unica dimensione di spavento e di dolore questa che è stata una vita densa, coraggiosa, in cui l’intuizione politica non ha mai rinunciato al dovere dell’equilibrio.
Mi ritrovo, quindi, nell’idea che occorra “liberare” Moro perché significa riappropriarsi di una parte di se stessi, quella che, pur nella sua irrimediabile incompiutezza della storia spezzata, chiama comunque all’impegno perché altri non subiscano la stessa mancanza.
Significa dare spazio e respiro a una nuova forma di “Resistenza” civile in cui la scelta a favore dell’attenzione pensosa, sensibile per la persona umana non sia oggetto d’irrisione, ma un motivo d’incontro e di condivisione delle coscienze democratiche.
* Fonte: Giustizia Insieme
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