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Coronavirus: “Come in guerra, aiutateci a salvare più vite possibili”

Antonella Napoli * il . Istituzioni, Società

infermieri coronavirus“Qui è davvero un incubo… una vera e propria guerra. Al lavoro è un massacro, facciamo ormai turni di 12 ore consecutive e abbiamo quasi raddoppiato i posti letto nel mio reparto. C’è paura perché ogni giorno la situazione peggiora. Ogni giorno spero che qualcosa migliori ma fino ad ora il ciclone va avanti sempre più violento”.

A scrivere questo messaggio una cara amica, infermiera all’ospedale di Cremona, impegnata in prima linea nell’emergenza Coronavirus. Leggerlo è stato come ritrovarsi lì con lei, provare la stessa angoscia, aggrapparsi alla stessa speranza. In un attimo catapultata in una realtà, un’emergenza, fino a quel nome avvertite come distanti, ho sentito forte il bisogno di raccontarle.

Sono persone come lei, come i tanti medici e operatori sanitari, che continuano a impegnarsi oltre le loro forze, rischiando quotidianamente sulla propria pelle, a rappresentare il meglio del nostro Paese in un momento così difficile, che spezza il fiato, spegne la serenità, rischia di cambiare radicalmente la nostra vita. Anzi, lo ha già fatto.

Ho sempre trovato stucchevole l’abuso del termine ‘eroe’, che spesso etichetta comportamenti che in un paese normale sarebbero ordinari. Ma guardando a quanto stia avvenendo nei nostri ospedali ho capito che gli eroi veri esistono e continuano a svolgere il proprio lavoro nonostante le paure che inevitabilmente assalgono qualsiasi essere umano in condizioni drammatiche.

A fronte della gravità della situazione il senso di responsabilità, la solidarietà, dovrebbero essere corali.
Invece c’è chi ancora non ha compreso l’importanza del seguire le indicazioni sulle misure da adottare per aiutare a contenere e a contrattare il contagio che sembra, per ora, inarrestabile.

Come spiega un altro operatore sanitario, un medico di cui riporto lo sfogo più che la testimonianza, che ripropone quel termine ‘guerra’ e lancia un appello: ognuno deve fare la propria parte per aiutare i medici a salvare più vite possibili.

Condividendo la sua esperienza, autorizzando a pubblicare il suo messaggio, spera che chi ancora oggi vive nel dubbio comprenda cosa sia giusto fare.

“In una delle costanti mail che ricevo dalla mia direzione sanitaria a cadenza più che quotidiana si invita a “fare social responsabilmente”, con alcune raccomandazioni che possono solo essere sostenute. Dopo aver pensato a lungo se e cosa scrivere di ciò che ci sta accadendo, ho ritenuto che il silenzio non fosse affatto da responsabili” racconta attraverso le chat ad amici e conoscenti cercando di trasmettere alle persone non addette ai lavori e più lontane dalla realtà sanitaria come si vive nelle zone più a rischio in questi giorni di pandemia da Covid-19.

“Capisco la necessità di non creare panico ma quando il messaggio della pericolosità di ciò che sta accadendo non arriva alle persone e sento ancora chi se ne frega delle raccomandazioni, di gente che si raggruppa lamentandosi di non poter andare in palestra o poter fare tornei di calcetto, rabbrividisco. Capisco anche il danno economico e sono anch’io preoccupato di quello. Dopo l’epidemia il dramma sarà ripartire. Però, a parte il fatto che stiamo letteralmente devastando anche dal punto di vista economico il nostro SSN, mi permetto di mettere più in alto l’importanza del danno sanitario che si rischia in tutto il paese”.

Fino a qualche settimana fa chi lavorava negli ospedali guardava con un po’ di stupore alle riorganizzazioni delle strutture in cui operavano. Il nostro nemico era ancora nell’ombra ma i reparti piano piano sono stati “svuotati”, le attività elettive interrotte, le terapie intensive liberate per creare quanti più posti letto possibili.

Questa rapida trasformazione ha portato nei corridoi degli ospedali un’atmosfera di silenzio e vuoto surreale che ancora non si comprendeva, in attesa di una guerra che doveva ancora iniziare e che molti (tra cui la sottoscritta) non erano così certi sarebbe mai arrivata con tale ferocia.

“Ricordo ancora la mia guardia di notte di una settimana fa passata inutilmente senza chiudere occhio – continua lo sfogo di questo medico In prima linea – in attesa di una chiamata dalla microbiologia del Sacco. Aspettavo l’esito di un tampone sul primo paziente sospetto del nostro ospedale, pensando a quali conseguenze ci sarebbero state per noi e per la clinica. Se ci ripenso mi sembra quasi ridicola e ingiustificata la mia agitazione per un solo possibile caso, ora che ho visto quello che sta accadendo. Bene, la situazione ora è a dir poco drammatica. Non mi vengono altre parole in mente.
La guerra è letteralmente esplosa e le battaglie sono ininterrotte giorno e notte.
Uno dopo l’altro i poveri malcapitati si presentano in pronto soccorso. Hanno tutt’altro che le complicazioni di un’influenza. Piantiamola di dire che è una brutta influenza. In questi 2 anni ho imparato che i bergamaschi non vengono in pronto soccorso per niente. Si sono comportati bene anche stavolta. Hanno seguito tutte le indicazioni date: una settimana o dieci giorni a casa con la febbre senza uscire e rischiare di contagiare, ma ora non ce la fanno più”.

E qui il racconto diventa disperato.

I pazienti arrivati negli ultimi giorni in ospedale non respiravano abbastanza, avevano tutti bisogno di ossigeno. Le terapie farmacologiche per questo virus sono poche. Il decorso dipende prevalentemente dall’organismo dei pazienti. L’intervento sanitario può solo supportarlo quando non ce la fa più.

“Si spera prevalentemente che il nostro organismo debelli il virus da solo. Le terapie antivirali sono sperimentali su questo virus e impariamo giorno dopo giorno il suo comportamento. Stare al domicilio sino a che peggiorano i sintomi non cambia la prognosi della malattia. Ora però è arrivato quel bisogno di posti letto in tutta la sua drammaticità. Uno dopo l’altro i reparti che erano stati svuotati, si riempiono a un ritmo impressionante. I tabelloni con i nomi dei malati, di colori diversi a seconda dell’unità operativa di appartenenza, ora sono tutti rossi e al posto dell’intervento chirurgico c’è la diagnosi, che è sempre la stessa maledetta: polmonite interstiziale bilaterale” l’amara constatazione che si è ritrovato ad affrontare nelle due settimane il medico bergamasco.

Basterebbe il suo racconto a togliere ogni dubbio sulla gravità della situazione.

Quale virus influenzale causa un dramma così rapido? L’interrogativo che si e ci pone.

“Nell’influenza classica, a parte contagiare molta meno popolazione nell’arco di più mesi, i casi si possono complicare meno frequentemente, solo quando il virus distruggendo le barriere protettive delle nostre vie respiratorie permette ai batteri normalmente residenti nelle alte vie di invadere bronchi e polmoni provocando casi più gravi. Il Covid 19 causa una banale influenza in molte persone giovani, ma in tanti anziani (e non solo) una vera e propria SARS perché arriva direttamente negli alveoli dei polmoni e li infetta rendendoli incapaci di svolgere la loro funzione. L’insufficienza respiratoria che ne deriva è spesso grave e dopo pochi giorni di ricovero il semplice ossigeno che si può somministrare in un reparto può non bastare” è l’amara conclusione del lungo sfogo di una persona che ha toccato con mano quanto devastante possa essere il contagio.

Nonostante l’angoscia, i turni estenuanti, lui come la mia amica infermiera e decine di migliaia di operatori sanitari che stanno curando gli ammalati negli ospedali di tutto il Paese continuano a fare il proprio lavoro “guadagnandosi semplicemente da vivere con qualcosa che regala emozioni”.

Parola di uomini e donne per i quali il giuramento di Ippocrate è qualcosa di più dell’impegno a rispettare le norme del codice di deontologia medico.

Fonte: Articolo 21

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