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Una proposta per riformare la giustizia: aboliamo l’appello

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni

5de64060250000b03cd2ef6dI pannicelli caldi servono a poco. Serve il coraggio, una buona volta, di riforme radicali. Per correggere l’anomalia italiana servono la “nuova” prescrizione e la riduzione dei gradi di giudizio

A forza di litigi nella compagine (?) giallo-rossa, la nuova disciplina della prescrizione, nonostante una legge che ne preveda l‘entrata in vigore all’inizio del 2020, appare tutt’altro che scontata.

Francamente non se ne capisce la ragione. Interrompere la prescrizione, infatti, significa eliminare un’anomalia che caratterizza negativamente il nostro paese, allineandolo alle altre democrazie occidentali. La scusa per un rinvio (magari con la riserva mentale di un definitivo abbandono) è che senza riforme strutturali che accelerino il processo penale potrebbero determinarsi pericolosi  sconquassi.

In realtà, è opinione diffusa e ampiamente condivisa che gli effetti della “nuova” prescrizione – quali che siano – cominceranno a prodursi solo intorno al 2023, per cui resta comunque a disposizione uno spazio di tempo ancora sufficiente (un biennio) per riuscire ad abbinare prescrizione e accelerazione dei processi.

Ma è proprio su questo secondo punto che le polemiche diventano una matassa ancora tutta da sbrogliare. Perché non basta promettere (sia pure con le migliori intenzioni) che si ridurrà a quattro anni la durata dei processi. Oltre a essere scritto nella Gazzetta Ufficiale, questo obiettivo deve essere concretamente praticabile secondo logica e buon senso alla luce dei nuovi percorsi tracciati. Che però a tutt’oggi sono mere indiscrezioni o bozze, per cui è pressoché impossibile esprimersi al riguardo.

Una cosa almeno, però, si può e si deve dire fin da subito. Ed è che i pannicelli caldi servono a poco. Si dovrebbe avere il coraggio, una buona volta, di riforme radicali che oltrepassino la soglia dei semplici aggiustamenti, per arrivare invece a incidere sulla struttura del sistema.

Che sia qui il vero “malato” da guarire risulta evidente ricorrendo (senza bisogno di scomodare il “rasoio di Occam”) ad alcune semplici, persin banali, evidenze. Il nostro sistema processual-penale dal 1989 è di tipo accusatorio. Nei paesi di rito accusatorio di regola vi è un unico grado di giudizio, con possibilità in casi particolari di ricorrere ad una corte suprema. Da noi invece, tra riesame e giudizi incidentali vari, tra interventi del GIP e del GUP, tra Tribunale Appello e Cassazione (con possibilità di un reiterato “andirivieni” fra le ultime due istanze), di gradi di giudizio ne abbiamo una pletora.

Siamo dunque di fronte a una grave anomalia (oltre a quella della prescrizione) rispetto agli altri paesi di democrazia occidentale, un’anomalia che è appunto di sistema e che come tale va corretta riducendo drasticamente i gradi di giudizio.

La loro moltiplicazione si spiega con la radicata convinzione che la magistratura e il diritto fossero ostili alle classi sociali subalterne. Per arginare i misfatti che conseguentemente la cultura popolare riteneva perpetrati nei secoli, ecco appunto – estremizzando in modo grossolano – l’idea di più gradi di giudizio, come speranza di una possibile riduzione, nel complesso, della penalizzazione dei “meno uguali”.

Senonché, il combinato disposto delle lungaggini processuali, delle procedure barocche, dei troppi gradi di giudizio e dei costi elevati ha finito per fare del processo un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che in realtà sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai.

Con il risultato che invece di alleggerire le diseguaglianze confidando nella moltiplicazione dei giudizi, il nostro sistema penale ha finito per realizzare la coesistenza di due distinti codici.

Uno per i “galantuomini” (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, per bene a prescindere…); l’altro per cittadini “qualunque”. Nel primo caso il processo – con tutti i suoi “difetti” strutturali – mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che inghiotte ogni cosa; vuoi – mal che vada – ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni, scudi e leggi ad personam assortite. Nel secondo caso invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone.

Basta dunque con i palliativi. Si valuti anche l’ipotesi dell’abolizione del grado di appello in modo da uniformare il nostro agli altri paesi di rito accusatorio. I vantaggi sarebbero strepitosi. Innanzitutto si potrebbe cancellare l’arretrato (circa un milione e mezzo di processi penali) che pesa come un macigno sul sistema. E che sparirebbe in un paio d’anni se i magistrati e il personale amministrativo oggi impiegati in appello fossero destinati a lavorare soltanto a questo scopo.

Dopo di che i magistrati e il personale amministrativo del “defunto” appello potrebbero essere convogliati sul primo grado (razionalizzando i criteri di assegnazione monocratica), con evidente accelerazione dei tempi del processo già di per sé molto abbreviati con un grado in meno. Così, il male cronico della nostra giustizia, la durata biblica dei processi, avrebbe finalmente qualche prospettiva di guarigione.

E ben noto – per altro – che l’ipotesi dell’abolizione dell’appello è aborrita dagli avvocati e respinta come scandalosa da molti altri. L’obiezione principale è che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera garanzia sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa, uguale per tutti. Non in un processo che registra un progressivo arretramento delle garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli.

In ogni caso, se davvero si ha a cuore una riforma della giustizia capace di impedire che un servizio pubblico (dovuto) continui a degenerare nella sua sostanziale negazione, la buona politica deve avere coraggio. Coraggio di ipotizzare e studiare anche scelte difficili; se necessario, controcorrente.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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