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La storia di Khadija

Rino Giacalone il . Giustizia

donna-disabile-sfuocataQuando la violenza non è solo quella “per troppo amore”.

Oggi è una giornata particolare, a livello internazionale si vuole dare impulso ad una campagna contro i femminicidi, le violenze contro le donne, si vuole sopratutto spingere a denunciare senza tentennamenti le donne vittime, come spesso si dice, di quel “troppo amore” – che certo amore non è.

Purtroppo la cronaca continua a registrare di questi brutti episodi, l’ultimo di pochi giorno addietro, a Partinico Ana Maria, 30 anni è stata uccisa dall’amante, Antonio un imprenditore sposato che quando ha saputo che la sua giovane amante aspettava un bambino ha deciso di mettere fine a quelle due vite con un paio di coltellate.

Tante le storie che si raccontano sopratutto in questa giornata. Noi vogliamo scrivere di una storia che sembra uscire fuori tema, ma così non è, se riflettete bene.

E’ la storia di Khadija, ha 52 anni, li compie proprio oggi, è nativa del Marocco, ma dal 1995 si è regolarmente trasferita in Italia. Da Casablanca raggiunge Trapani dove già lavoravano altri suoi familiari. Lei comincia a lavorare come badante però man mano studia, si specializza, diventa una operatrice sanitaria. A Trapani conosce Giuseppe, anche lui operatore sanitario, ma un uomo capace di fare mille lavori, con grande capacità ad adattarsi: diventeranno presto marito e moglie.

La vita di Khadija Moussallah purtroppo dal 15 luglio 2009 cambia radicalmente. A quell’epoca con Giuseppe viveva a Trieste, insieme avevano conosciuto la necessità di emigrare in quella città, per avere quel lavoro più stabile che in Sicilia non avevano.

Quel giorno lei esce dalla sede del sindacato dove si era recata per sbrigare alcune faccende, si incammina sul marciapiede per raggiungere casa. In quell’istante un fuoristrada, che si era scontrato con un’altra vettura per una precedenza non concessa, le piomba addosso, ferendola gravemente. Lei non si accorge di nulla: non ha avuto possibilità di mettersi al sicuro, quel fuoristrada l’ha investita in pieno, colpendola alla schiena, scaraventandola per terra, quasi senza sensi.

Da quel momento Khadija conosce la violenza. Non quella domestica, Giuseppe la serve ogni giorno di tutto punto, la accompagna e non la lascia un attimo, dividendosi tra lei e il lavoro, ma quella della burocrazia cieca e sorda, delle lungaggini burocratiche, della mala giustizia.

A causa di quell’incidente perde quel posto di lavoro: rientrata, infatti, in servizio nel febbraio 2010 in una cooperativa di servizi sanitari alla persona, ha potuto lavorare appena qualche ora, per dovere essere riportata in ospedale, per i dolori che non le hanno permesso di stare al lavoro. Conseguenza, il licenziamento: “In quella cooperativa – ci racconta – mi hanno detto che non c’era lavoro compatibile con le mie condizioni di salute”.

Le ferite di Khadija sono di quelle destinate a non guarire mai, sono menomazioni fisiche che per sempre la limiteranno nei movimenti. La terapia poi è di quella che agisce sul sistema nervoso, attutendo certo i problemi di salute, ma causando altri problemi che la costringono a passare molte ore a casa, senza potersi muovere.

A casa tiene uno scaffale pieno di documenti: “quella è tutta la documentazione sanitaria raccolta in anni e anni di ricorsi contro una compagnia assicuratrice, che non vuole riconoscere il danno arrecato. Abbiamo fatto ricorso all’autorità giudiziaria, ma anche lì tempi lunghi e interminabili, in attesa ancora di una sentenza, chiesta al Tribunale di Spoleto dove nel frattempo con Giuseppe mi sono trasferita – dice ancora Khadija – con giudici che hanno affidato la perizia sul mio caso a un medico otorinolaringoiatra, quando a chiare lettere la mia patologia è di competenza di neurologi, neurochirurgi, ortopedici, psichiatri, psicologi, fisiatri”.

Ancora oggi non c’è la sentenza civile, l’ultima pronuncia è dello scorso anno, il giudice non ha riconosciuto al caso l’urgenza e l’ha rimandato al rito ordinario: “significa che non sappiamo fra quanti anni avremo una sentenza di primo grado. Ma non c’è anche l’ombra di un giusto risarcimento”. L’assicurazione si è tirata indietro rispetto ad ogni tentativo di mediazione proposto dai legali di Khadija. L’assicurazione ha asserito di riconoscere a Khadija una somma compatibile con un sei per cento di invalidità permanente provocata da quell’incidente e negando ogni risarcimento per il suo licenziamento, “ci hanno scritto che non era conseguenza di quell’incidente”.

Alla donna è stato liquidato un indennizzo che frattanto in questi anni è stato speso per spostamenti, visite mediche, acquisti di farmaci, totalmente inutile per aiutarla a riprendere quella che si può definire, pur tra mille guai fisici, una vita normale.

“Il mio pensiero fisso è a quel maledetto giorno, non so come mi sono ritrovata dal camminare sul marciapiede in un letto di ospedale, poi ho messo la più grande forza di volontà per tornare al lavoro, ma non ci sono riuscita, e ancora da allora tutto per me è cambiato, non vedo la luce, vedo solo oscurità”.

Le parole di Khadija sono le parole di una donna che ha conosciuto violenza, contro la sua persona, fisica e morale, una donna che chiede aiuto, lo ha chiesto anche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma le parole arrivate dal Quirinale sono state quelle di rito, firmate da una dirigente della segreteria generale del Capo dello Stato.

Le sue non sono parole pronunciate con rabbia, lei si presenta calma, pacata, racconta la sua storia e ci ha chiesto una mano per farla conoscere, perché qualcuno si adoperi perché a lei venga dato quanto merita, e giammai l’elemosina.

“Giuseppe lavora – ci dice – io vorrei riuscire a fare qualcosa anche stando a casa, non desideriamo la pietà da parte di nessuno, ma che ci sia concesso il giusto, e mi sia cancellata di dosso la violenza che ha colpito me e la mia famiglia”.

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