Al fianco di Nello Scavo: non una passerella, ma un investimento sul nostro futuro
Abituati a notizie-pettegolezzo, retroscena inventati, articoli insipidi quando un giornalista esce con un pezzo serio, documentato, che va in profondità…finisce sotto scorta.
Purtroppo ciò che è successo a Nello Scavo, cronista dell’Avvenire, dovrebbe preoccupare ogni giornalista.
Le vicende che ha svelato sul suo giornale sono abbastanza note che vale la pena solo di accennarle: ha scoperto che le autorità italiane, pur di tenere lontano dalle coste i migranti, aiutano personaggi libici fortemente sospettati di essere trafficanti di carne umana.
Particolare intuibile, ma finora non dimostrato, almeno fino a quando Nello Scavo ha pubblicato i dettagli del viaggio in Italia del signor Abdul Rhaman Milad detto Bija, ufficiale della Guardia Costiera della zona di Zawyia, nell’Ovest della Libia. Un viaggio che l’ha portato – invitato ufficialmente – al Viminale. Sarebbe come invitare Al Capone a Fort Knox: Bija è sospettato di prendere i soldi, in virtù del memorandum appena confermato fra Tripoli e Roma, per fermare le partenze dei migranti e contemporaneamente prendere le mazzette dalle milizie amiche per gestire il traffico di migranti.
Non è una notizia di poco conto. Ma dovrebbe essere il normale rapporto tra i “poteri” e i giornalisti. Invece per averla pubblicata Nello Scavo è stato minacciato così seriamente da indurre il Viminale a dargli una scorta.
E qui arriviamo alla solidarietà che la Fnsi, l’Associazione Lombarda dei Giornalisti e Articolo21 mostreranno martedì 5 novembre a lui e all’intera redazione di Avvenire: se non ci indigniamo per le minacce, se non ci mettiamo anche fisicamente al fianco dei colleghi sotto scorta, se non riprendiamo le loro inchieste per farle conoscere a sempre più persone, se non facciamo tutto questo la diamo vinta ai violenti, a chi vorrebbe usare la forza per continuare nei suoi sporchi traffici.
E questo atteggiamento dovrebbe riguardare tutti i giornalisti anche chi lavora in giornali “avversari”. Invece viviamo tempi in cui la solidarietà per alcuni riguarda solo chi è omogeneo. Le immagini ripugnanti dei senatori delle destre che si rifiutano di applaudire una sopravvissuta ad Auschwitz che, a 90 anni, trova la forza di impegnarsi contro l’hate speech, dicono anche questo: l’intelligenza è asservita allo schieramento.
Tornando al giornalismo: nel 2018 secondo Reporter sans frontiers sono stati uccisi 80 colleghi, 15 in più del 2017.
348 sono in carcere, 22 in più dell’anno scorso. Dunque il giornalismo può infastidire ancora chi ha qualcosa da nascondere.
I mandanti di questi delitti sono leader politici, uomini di chiesa, manager, capi di milizie. Afghanistan, Siria, Messico, India e Stati Uniti sono le nazioni con più giornalisti uccisi nel 2018. Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Cina i paesi con più reporter dietro le sbarre.
Se intrecciate i dati emerge chiaramente che si muore di più perché ci sono più conflitti in corso, perché nelle guerre asimmetriche non è più chiaro dov’è il campo di battaglia e chi sono i combattenti, ma anche si rischia di più perché il linguaggio si è imbarbarito fino ad arrivare ad indicare il giornalista come uno scomodo testimone da silenziare.
Se in Italia non siamo a questo punto è anche perché chi viene minacciato trova i colleghi che si stringono al suo fianco. Non è una passerella, è un’assicurazione sulla vita di tutti noi.
* Portavoce Articolo21 per la Lombardia e direttore del Festival dei Diritti Umani
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