Si può combattere la corruzione?
«La corruzione va compresa con categorie nuove e antiche insieme, e va affrontata risvegliando un senso di fiducia interiore che oggi è coperto di cenere».
(da «Corrosione», di Peter K.A. Turkson, Rizzoli, Milano 2017, pag. 98)
Tutti condanniamo la corruzione, dilagante nel nostro paese, ma pochi sanno esattamente in cosa consista, al di là di una nozione penalistica, i danni che crea e, soprattutto, come combatterla. La rappresentazione consolatoria prevalente a cui conviene aggrapparci è quella che accusa la sola classe dirigente politica/amministrativa del suo innato essere corrotto. Altre volte, sempre con l’intento di deresponsabilizzarci, ci autoconvinciamo che la nostra «italianità» sia più vulnerabile alle sirene della corruzione rispetto ad altri popoli, convincendoci che ci sia ben poco da fare per contrastarla, se non, addirittura, adeguandoci alla morale prevalente.
Per uscire da questa logica di cinismo o di apatia collettiva o, ancora, di rassegnazione diffusa, è necessario interrogarsi su quale cultura territoriale prevalga in un determinato contesto. La nascita, lo sviluppo e il consolidamento di una cultura anti-corruttiva può essere l’unica chiave di riscatto da questa logica perversa e dannosa, a patto che si superi, da un lato, la sola compliance legale, non sufficiente per costruire una barriera alla diffusione della corruzione, dall’altro, la convinzione che la sola repressione o il rinforzo delle sanzioni penali siano le soluzioni per questo male endemico.
Per puntare sull’avvio di uno sviluppo culturale anti-corruttivo è necessario parlare della partecipazione dei cittadini alla costruzione di questa nuova identità. Se cercassimo, infatti, una definizione di corruzione che vada oltre la nozione penalistica ci accorgeremmo che questo termine ha un’accezione ampia. Il Piano Nazionale Anticorruzione ne offre una definizione estesa, e ricorda che la corruzione comprende varie situazioni in cui si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenerne vantaggi privati. Secondo l’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) e la relativa Doha Declaration: Promoting a culture of lawfulness la lotta contro questo complesso fenomeno richiede molteplici approcci simultanei, anche e soprattutto perché la corruzione può portare a un modello tenace di comportamento non etico che viene sostenuto e replicato per molti anni: la corruzione è, cioè, non solo una delle minacce globali più gravi del nostro tempo, ma soprattutto un concetto polivalente. Ha effetti disastrosi sull’economia e sull’ambiente ed è collegato alla crisi della democrazia e alle crescenti disuguaglianze. Ovviamente, copre una varietà di azioni di una varietà di attori in una varietà di contesti.
Accettare che ci siano diverse comprensioni della corruzione può aiutarci a coltivare una comprensione integrata e multidisciplinare della corruzione (UNODC, Corruption, baseline definition).
Questo è il punto di partenza: l’attività di prevenzione della corruzione in un contesto territoriale (che sia comunale, o metropolitano, o regionale) avviene ad opera di tutti gli attori del territorio, non solo mediante interventi gestionali e repressivi degli enti amministrativi e giudiziari, e di certo non per mezzo di azioni calate dall’alto senza il coinvolgimento popolare. La vera prevenzione contro la corruzione è un processo culturale partecipativo e multidisciplinare, che coinvolge in maniera dinamica la comprensione di valori, obiettivi, abilità e culture, da sviluppare o consolidare, secondo una visione sistemica, condivisa e duratura.
In particolare, il processo di sviluppo di una cultura anti-corruttiva deve essere inteso come un processo culturale che, per essere efficace, deve ruotare intorno ai seguenti perni:
- l’approccio partecipativo di tutti gli interlocutori del territorio comunale (cittadini, associazioni, operatori, etc.), traducibile nell’attivazione di solide reti di relazioni tra gli stakeholder;
- il valore condiviso dell’anticorruzione come elemento trainante del processo da avviare.
Se è vero, ed è vero, infatti, che la corruzione (e la criminalità organizzata) spezzano il patto sociale che rende un insieme di persone una comunità, e, di conseguenza, ne deteriorano la spinta alla partecipazione alla vita della propria comunità (in cui non si identificano più), si può affermare che l’avvio di un ciclo di sviluppo anti-corruttivo diventa una leva per la ricostruzione di una comunità territoriale in ottica sistemica.
I diversi attori presenti all’interno del territorio comunale, infatti, dovrebbero interagire costantemente, evidenziando il fondamentale bisogno relazionale-dialogico. La presenza di un degrado corruttivo (e mafioso) spezza, però, questa voglia relazionale, accartocciando in se stessi i singoli attori sociali, che perdono una visione collettiva per abbandonarsi ad una egoistico-individuale.
Gli attuali contesti territoriali sono, infatti, troppo spesso, caratterizzati da:
- una mancanza di fiducia nelle istituzioni locali, comunali, regionali e di ogni altro livello;
- un continuo sfaldarsi del patto sociale implicito e «invisibile» nei rapporti sociali;
- un’esasperazione dei rapporti di forza: istituzioni-cittadino, cittadino-cittadino;
- una scarsa condivisione di valori comuni che raccontino un’identità culturale nella quale identificarsi;
- una debole volontà di condividere esperienze e significati all’interno della comunità in cui si vive, con il conseguente indebolimento del capitale relazionale umano e sociale;
- una crescente difficoltà nella comprensione e accettazione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.
L’esigenza di una identità territoriale anti-corruttiva nasce, oltretutto, da due ordini di considerazioni: da un lato, si riscontrano i limiti dei singoli attori (le aziende, lo stato, la PA, la società civile, le scuole, le associazioni, etc.) nel fornire risposte adeguate ai complessi problemi posti dalla collettività; dall’altro, l’identità e la sostenibilità di un territorio non possono essere né monopolio né patrimonio esclusivo di un attore unico. In pratica, vige il principio secondo il quale lo sviluppo di un’identità anti-corruttiva territoriale e la coesione sociale di una comunità e di un territorio devono necessariamente crescere insieme e coesistere, perché l’uno senza l’altro non risultano sostenibili nel tempo (n.d.r. si rimanda a Documenti di ricerca n° 12, La rendicontazione territoriale: le finalità, il processo e gli indicatori, GBS, Giuffrè editore, Milano 2011).
Da ultimo, il concetto di corruzione non può essere isolato all’interno dei palazzi istituzionali, così come non coinvolge solo alcuni attori sociali particolarmente esposti (chi lavora nel campo della gestione dei rifiuti, nel commercio, nell’edilizia, i dipendenti pubblici, etc.), bensì riguarda ogni cittadino di quel territorio e colpisce l’ambiente circostante nel suo complesso, decomponendolo. Ecco, allora, che l’avvio di una cultura identitaria anti-corruttiva consente di esprimere ad ogni attore sociale di un territorio, nell’ambito del proprio ruolo, come può concorrere ad accrescere una cultura di questo tipo, investendo in quel complesso di competenze, capacità, relazioni interpersonali, formali e informali, essenziali per il funzionamento sano del territorio, formanti il capitale sociale relazionale e umano.
Mediante l’utilizzo di forme partecipative per la realizzazione dell’identità anti-corruttiva si può mirare quindi a:
- stabilire un graduale passaggio da una città che delega ad una città che delibera e quindi
- far sperimentare e apprendere ad ogni cittadino l’attività dell’amministratore locale in forma ovviamente più semplificata, intorno al tema della legalità;
- avvicinare la PA ai cittadini, e i cittadini alla PA, anche attraverso un graduale cambiamento del linguaggio, come primo traguardo verso un reale avvio di un nuovo processo culturale.
È fondamentale comprendere, però, il seguente passaggio: per stabilizzare nuovi valori, si deve produrre un cambiamento della cultura dominante. Da qui nasce l’importanza di avviare un processo di partecipazione e apprendimento che muova dalla sperimentazione di modalità partecipative allargate e che arrivi, passando attraverso il vaglio del controllo degli interlocutori coinvolti, a dimostrare la propria validità.
Affinché questo avvenga, è fondamentale che le pratiche di anticorruzione sperimentate dimostrino sia di essere efficaci sia di essere recepite e legittimate dagli stakeholder coinvolti (n.d.r. si rimanda al libro Responsabilità sociale del territorio, (a cura di) Peraro e Vecchiato, FrancoAngeli, Milano 2007).
Ne consegue che l’approccio metodologico per la costruzione della nuova identità territoriale anti-corruttiva, partecipativo e relazionale-sistemico, deve condurre a:
a) trasferire conoscenza,
b) favorire lo scambio di idee e opinioni,
c) generare e potenziare le relazioni tra i membri della comunità e tra questi e le istituzioni,
d) sviluppare una cultura civica orientata alla partecipazione e alla legalità;
e) far emergere proposte orientate all’interesse generale e al bene comune.
Per produrre un cambiamento della cultura dominante, e, al contempo, per procedere secondo le migliori prassi, occorre programmare diversi step, per associare ad ogni azione uno o più obiettivi specifici, uno o più indicatori, in un mix di qualitativi e quantitativi, e un follow-up sugli obiettivi.
Quanto più le azioni e le pratiche di anticorruzione saranno tradotte in obiettivi, con indicatori specifici, e dimostreranno di avere successo, tanto più esse subiranno un processo di «idealizzazione» attraverso il quale i principi su cui si basano tenderanno a diventare, se reiterati, valori condivisi.
La partecipazione non è l’obiettivo del progetto ma lo strumento per accrescere le opportunità di relazione per definire la nuova identità anti-corruttiva. Il processo partecipativo farebbe sperimentare in modo semplice e dinamico le stesse logiche che gli amministratori di una comunità vivono nella loro quotidianità quando devono prendere decisioni orientate al bene comune in un contesto di frammentazione e di risorse scarse.
L’idea alla base è che le relazioni - generate dalla circolazione aperta e trasparente di informazioni, idee, opinioni, assieme all’opportunità di formazione e accrescimento delle persone – sono la precondizione per una deliberazione più consapevole, efficace e condivisa tra i cittadini e per una decisione più orientata al bene comune, quello della legalità. Non a caso, un percorso così descritto non dovrebbe coinvolgere i cittadini in maniera sporadica o una tantum, ma dovrebbe avere l’obiettivo di fornire loro strumenti di autogoverno capaci di far emergere periodicamente (annualmente) i bisogni presenti sul territorio in tema di legalità, le soluzioni più condivise e le persone più rappresentative e attive su questi fronti, e al tempo stesso stimolare un processo di scambio e di apprendimento, un percorso, cioè, deliberativo capace di includere tutta la città/il territorio e di modificare bisogni e soluzioni in maniera condivisa.
In conclusione, per prendere davvero la corruzione «per le corna», serve affiancare al termine corruzione quello di partecipazione, o, altrimenti, continueremo a fingere di lottare contro il cancro italiano.
Come ha scritto Papa Francesco in prefazione al libro Corrosione di Peter K.A. Turkson: «La lotta alla corruzione non può limitarsi alle leggi, ma deve puntare allo sviluppo di una cultura che contenga in sé gli anticorpi contro una malattia alla quale siamo tutti esposti, soprattutto quando ci troviamo in condizione di esercitare una qualsiasi forma di potere. Dobbiamo parlare di corruzione, denunciarne i mali, capirla, mostrare la volontà di affermare la generosità sulla grettezza, la curiosità e creatività sulla stanchezza rassegnata, la bellezza sul nulla. Ecco il nuovo umanesimo, questo rinascimento, questa ri-creazione contro la corruzione».
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