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SCU: genesi, evoluzione e rinascita del clan Tornese

Antonio Nicola Pezzuto il . Corruzione, Criminalità, Mafie, Puglia

IMG_1321Dopo aver fondato la Sacra Corona Unita nel carcere di Bari nel lontano maggio del 1983, Giuseppe Rogoli, che deteneva la dote di ‘diritto’, individuò un responsabile per ogni provincia. Gli affiliati scelti per ricoprire questo ruolo erano in possesso della dote di ‘tre quartino’ e venivano indicati come “compare Tonino”, “compare Vincenzo Str” e “compare Gianfranco”, come specificato in una lettera inviata dal Rogoli ad Antonio Dodaro e ritrovata il 15 aprile 1987 dagli agenti di polizia nell’abitazione di quest’ultimo.

La Corte d’Assise di Lecce, nella sentenza del primo maxi processo alla SCU, emessa il 23 maggio 1991, identificava i tre responsabili nelle persone dello stesso Antonio Dodaro (per la provincia di Lecce), di Vincenzo Stranieri (per la provincia di Taranto) e di Gianfranco Pugliese (per la provincia di Brindisi).

Nella primavera-estate del 1988 i rapporti tra il Dodaro e i suoi più stretti collaboratori si deteriorarono a causa di alcuni comportamenti scorretti tenuti dal primo nei confronti degli altri affiliati. Contrapposizione che si concretizzò in una progressiva forma di isolamento del Dodaro che fu assassinato insieme alla moglie e al suocero nella loro abitazione, a Galugnano, il 17 dicembre 1988.

Questo episodio è cruciale nella storia della Sacra Corona Unita e di fondamentale importanza per capire la sua evoluzione fino ai giorni nostri. Da quella data, infatti, si susseguirono tutta una serie di vicende che vengono così sintetizzate nella sentenza del secondo maxi processo alla SCU, emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 13 febbraio 1997: “Dopo la morte di Tonino Dodaro nel dicembre del 1988…gli aderenti alla frangia leccese della Sacra Corona Unita lentamente ma sempre più nettamente iniziarono a dividersi in due gruppi. I contrasti furono causati dalla necessità di individuare colui che avrebbe dovuto sostituire il capo oramai ucciso e finirono quindi per provocare la formazione di due schieramenti: in uno si collocarono la gran parte degli associati che ritennero di poter fare riferimento a Giovanni De Tommasi ed ai fedelissimi di quest’ultimo (Cosimo Cirfeta, Maurizio Cagnazzo, Alessandro Macchia, Claudio Conte e Antonio Pulli); nell’altro si posero quegli affiliati che facevano capo a Mario Tornese. A questa contrapposizione corrispose di fatto una sorta di divisione del territorio della provincia di Lecce, poiché ciascuno dei due gruppi iniziò ad esercitare un più pregnante controllo delle attività illecite in determinati comuni del Salento: così, mentre gli associati al De Tommasi riuscirono ad imporre la loro supremazia principalmente in alcuni comuni nella zona a nord di Lecce (quali Campi Salentina, Salice Salentino, Squinzano, Trepuzzi, Surbo, Novoli); quelli che facevano capo al Tornese si preoccuparono di curare le attività illecite soprattutto nei comuni di Monteroni di Lecce, Arnesano, Leverano e Carmiano…”.

Numerose sono le sentenze irrevocabili in cui è stata accertata “l’operatività del clan Tornese (ricollegabile ai fratelli Angelo e Mario)”. L’11 febbraio 1999, la Corte di Appello di Lecce, in particolare, riconosceva l’esistenza del clan Tornese come gruppo autonomo della SCU e condannava per i reati di associazione di stampo mafioso ed associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti i fratelli Tornese ed altri esponenti del clan.

Un gruppo, quello dei Tornese, che riesce sempre a rigenerarsi e a restare attivo, nonostante la costante opera di repressione attuata dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine. Nel luglio del 2018 era stato al centro dell’operazione di polizia giudiziaria condotta dai Carabinieri del ROS denominata Labirinto. In quella circostanza erano state colpite due sue articolazioni facenti capo a Vincenzo Rizzo e a Saulle Politi.

A distanza di poco più di un anno, esattamente il 17 settembre 2019, sono ancora i ROS, coordinati e diretti dal Tenente Colonnello Gabriele Ventura, ad attenzionare questo clan eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP Cinzia Vergine, su richiesta del Sostituto Procuratore Valeria Farina Valaori e del Procuratore Capo Leonardo Leone De Castris, nei confronti di 22 suoi esponenti. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, detenzione e porto abusivo di armi, estorsione e danneggiamento con l’aggravante del metodo mafioso.

Al centro delle indagini la figura di Fernando Nocera. Nativo di Cerignola, trasferitosi nel Salento verso la fine degli anni ᶦ80, si affiliava subito alla frangia leccese della Sacra Corona Unita, capeggiata dai fratelli Tornese di Monteroni. Condannato a 11 anni e 4 mesi di reclusione per associazione mafiosa e per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, tornava in libertà nel 2008 dopo aver scontato la lunga pena detentiva e si affermava “quale referente criminale del clan Tornese per la zona di Carmiano”. Il 13 novembre 2009, Fernando Nocera veniva nuovamente arrestato per estorsione aggravata dal metodo mafioso.

L’attività investigativa si è protratta tra il novembre 2017 e il luglio 2018. In questo arco di tempo le intercettazioni sono state corroborate da ulteriori riscontri consistenti in sequestri di armi e stupefacenti. Dal lavoro degli investigatori è emersa l’esistenza sul territorio di Carmiano e comuni limitrofi di un’associazione mafiosa capeggiata dal Nocera e della parallela associazione dedita al traffico di stupefacenti, rivelatosi la principale fonte di sostentamento e guadagno della prima. Di Fernando Nocera hanno parlato negli anni diversi collaboratori di giustizia, delineandone la personalità e facendo luce sui rapporti che l’uomo intratteneva con altri esponenti della criminalità organizzata locale.

La mafiosità dell’associazione emergeva dalla sua struttura gerarchica al cui vertice si trovava Fernando Nocera ed in cui ogni componente del gruppo rivestiva un ruolo specifico. Ma non solo. Altri caratteri distintivi erano l’affectio societatis che si manifestava con l’utilizzo di termini propri del vincolo familiare quali “zio”, “papà”, “famiglia”; il controllo del territorio esercitato attraverso la consumazione di diversi “reati fine”; il controllo delle attività economiche e la disponibilità a farsi carico di problematiche della gente comune, manifestandosi come punto di riferimento affidabile e concreto al fine di acquisire consenso sociale; la ripartizione dei profitti tra gli affiliati; il sostentamento ai sodali detenuti e alle relative famiglie; la circolazione delle informazioni tra sodali detenuti e affiliati liberi; la forza di intimidazione e la conseguente condizione di assoggettamento ed omertà, esercitata sia mediante la realizzazione dei reati fine, sia semplicemente sulla base della “fama criminale”; la disponibilità di armi.

Al momento dell’esecuzione dell’ordinanza, il Nocera si trovava già in carcere perché detenuto dal 18 gennaio 2018, giorno in cui veniva arrestato dalla Guardia di Finanza dei Comandi Provinciali di Lecce e Napoli perché accusato dell’approvvigionamento di oltre 40 kg di hashish da un gruppo attivo a San Giuseppe Vesuviano. E proprio le conversazioni telefoniche e ambientali intercettate nei giorni successivi all’arresto di Nocera sono particolarmente significative. In quel periodo, infatti, si è verificato un riassetto all’interno del gruppo, pur restando il Nocera leader indiscusso. La direzione delle attività delittuose sul territorio passava materialmente ai fratelli Matteo e Davide Conversano, con il sostegno del leccese Gabriele Pellè. Altre figure di spicco all’interno del clan, erano la moglie del Nocera, Livia Comelli, e l’amante Giuliana Cuna. La prima “è compiutamente partecipe delle dinamiche del gruppo e ha innanzitutto il ruolo di cinghia di trasmissione delle informazioni e delle direttive organizzative del marito all’esterno”. Le indagini hanno accertato che lo stesso capoclan impartiva le proprie direttive nel corso dei colloqui in carcere, affidando alla moglie Livia Comelli il compito di riportarle agli altri affiliati e di mantenere i contatti con “i monteronesi”. Anche l’amante Giuliana Cuna aveva il compito di veicolare le missive che partivano dal carcere e destinate agli altri adepti, inoltre rappresentava anche una figura di riferimento nei rapporti con gli altri gruppi criminali.

Scrive il Gip Cinzia Vergine nell’ordinanza: “Nocera è soggetto perfettamente consapevole del proprio carisma criminale e che non lesina certo ad autocelebrarsi anche con riferimento alla propria forza d’animo e al fermo intendimento di non addivenire, mai, alla decisione di collaborare con la giustizia, atteggiamento considerato ‘infamante’ tanto da essere considerato alternativo al suicidio”.

“Devono imparare da me, devono farsi la galera…non gli piace la caramella?…però mai mai mai e poi mai, mi suicido, faccio prima…”, diceva in un colloquio intercettato in carcere il 6 febbraio 2018.

Il clan aveva manifestato tutti i connotati di estrema pericolosità, come dimostrato dalla disponibilità di armi, munizioni e materiale esplodente, nonché dalla spiccata propensione alla realizzazione di attentati incendiari e dinamitardi per finalità estorsive e intimidatorie, finanche per meri dissidi personali.

Il core business del gruppo mafioso era rappresentato dal traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, nell’ambito del quale manteneva rapporti con quello capeggiato da Saulle Politi, operante su Monteroni di Lecce.

In particolare, punto di contatto tra il clan Nocera e il clan Politi, entrambi federati al clan Tornese, era Gabriele Tarantino, arrestato nell’operazione Labirinto perché uomo di fiducia del Politi e recentemente condannato in primo grado, con rito abbreviato, alla pena di 10 anni di reclusione per associazione mafiosa e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

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