Addio Pizzo, un bilancio dopo 15 anni di impegno
L’alba del 29 giugno 2004, Palermo si risvegliò tappezzata di centinaia di adesivi con il messaggio: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.
Quindici anni fa la nostra pratica era un piccolo e fragile segno di implicita resistenza al cospetto di una città in cui il termine “estorsione” rappresentava un tabù, le denunce si contavano sulle dita di una mano e “l’ottanta per cento degli operatori economici” – sosteneva la procura di Palermo – era condizionata dal fenomeno del pizzo.
Tra insidie, risultati e qualche errore, negli anni abbiamo accompagnato a denunciare e aiutato centinaia di commercianti e imprenditori che si sono liberati dagli estorsori e che oggi proseguono il loro lavoro, pur tra mille difficoltà congiunturali, in condizioni di normalità e serenità. Pensiamo di aver contribuito a creare una valida alternativa oltre quella, per tanto tempo inevitabile, di tacere e pagare le estorsioni.
Nonostante oggi ci sia chi continua a pagare, riteniamo, come sottolineato in diverse occasioni pubbliche anche dall’attuale Questore di Palermo, che rispetto a quindici anni fa il fenomeno non colpisca più la maggior parte degli operatori economici della città. Negli anni, è emersa frequentemente da molte indagini la preoccupazione di boss e gregari di perpetrare le estorsioni sul territorio e in particolare di avvicinare gli operatori economici della rete di Addiopizzo.
Avere consapevolezza di tutto questo è necessario per uscire da quella che a nostro avviso è diventata un’anacronistica logica emergenziale, spettacolare e drammatizzante, con cui spesso si vivono e si rappresentano mediaticamente alcune storie di denuncia. Attenzione, la scelta di opporsi al racket delle estorsioni rimane difficile e non immune da conseguenze. Ma va detto che le conseguenze non sono tali, per l’esperienza fatta negli ultimi quindici anni per strada e nelle aule di giustizia, da creare rischi per l’incolumità delle vittime o danni irrimediabili alle attività economiche di chi denuncia.
Per tali ragioni pensiamo che non sia più il tempo in cui la narrazione del fenomeno del racket debba sfociare in rappresentazioni eroico-mediatiche che, oltre a risultare fuorvianti, allontanano la gente comune da una battaglia che per essere vinta ha bisogno di esempi di normalità, praticati più che proclamati.
Cambiare narrazione e modo di intendere il percorso di denuncia serve anche per non dare spazio a chi cerca di strumentalizzare il proprio ruolo di vittima, tentando di attribuire le proprie difficoltà economiche e imprenditoriali – causate dalla grave crisi economica o da scelte aziendali non sempre adeguate – alle estorsioni subite e poi denunciate.
In generale pensiamo che non sia più tempo dei paradigmi panmafiosi per i quali tutto e ovunque è mafia e chi dissente nella migliore delle ipotesi è meno antimafioso di altri e nella peggiore è addirittura mafioso. A fronte di tale spaccato e per evitare di scadere in valutazioni parziali e trionfalistiche, va ribadito che c’è ancora molto da fare.
Ci sono contesti dove ancora permangono paura e diffidenza, specie in aree fortemente colpite da povertà e disagio economico, sociale e culturale. Zone della provincia e quartieri della città dove gli unici presìdi sono centri aggregativi e di volontariato, qualche scuola, le parrocchie e gli uffici delle forze dell’ordine.
Tutto ciò non può che rendere più difficili i processi di affrancamento dal fenomeno estorsivo, da Cosa nostra e dall’illegalità diffusa, che in certe situazioni è l’unico ammortizzatore sociale in grado di assicurare sopravvivenza. Inchieste come quelle sulle truffe alle assicurazioni, che hanno coinvolto decine di persone che si sono lasciate spaccare le ossa pur di racimolare un po’ di denaro, sono la conferma di tali drammatiche condizioni economiche e sociali.
Per molti versi Palermo è cambiata in meglio, ma viviamo un contesto dove diritti fondamentali come quelli al lavoro, alla casa, alla salute e all’istruzione, rimangono un miraggio per tanti, troppi. Ancora oggi quindi, si conferma una lontananza imbarazzante dal modello di società disegnato invece dalla Costituzione repubblicana, fondato su eguaglianza, diritti e redistribuzione della ricchezza.
In altre parole, a una sempre più incisiva e costante repressione portata avanti dai magistrati e dalle forze dell’ordine, non seguono vigorose politiche sociali e del lavoro, da parte di chi a vario titolo e livello governa il Paese e il territorio. Manca da parte della politica, più che una visione, un progetto concreto e sostenibile.
Un progetto dove anche i cittadini sentano la responsabilità di essere tali e smettano una volta per tutte di essere spettatori indifferenti, abituati a puntare il dito senza essere capaci di mettere in discussione innanzitutto loro stessi.
Per tutto questo, proseguiamo il nostro impegno quotidiano per le strade di Palermo e in provincia. Con i nostri limiti ma con l’energia e l’entusiasmo di quindici anni fa, invitandovi a partecipare a una rete economica libera da condizionamenti mafiosi, a fianco di chi si oppone al racket e insieme a chi vive situazioni di disagio economico e sociale, per costruire collettivamente una reale prospettiva di cambiamento.–
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