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Sea Watch 3. Così neanche in galera

Gian Carlo Caselli il . Migranti

sea watch 3L’immigrazione extracomunitaria costituisce oggi – sul piano sociale, economico e giuridico – uno dei maggiori problemi italiani.

Sbaglia chi dimentica che la migrazione rappresenta un motore di sviluppo e vuole invece leggervi una minaccia per la nostra civiltà, da fronteggiare con muri o “guerre navali”: finendo per criminalizzare tutti i migranti in quanto tali, perché considerati “diversi” e per ciò stesso pericolosi a prescindere.

Ma sbaglia anche chi sottovaluta il problema, dimenticando che un fenomeno davvero epocale come la migrazione è un fiume in piena che inevitabilmente porta con sé scorie e detriti: problemi che vanno trattati con realismo, senza illudersi di poterli esorcizzare con un approccio esclusivamente sociologico.

Ciò non significa che i problemi della sicurezza debbano affrontarsi in termini esclusivamente di sicurezza e ordine pubblico. La risposta sul piano penale è strutturalmente inidonea a governare fenomeni complessi come le migrazioni, che – proprio perché tali – esigono tante medicine e tante cure. Comprese adeguate politiche sociali.

In questo quadro un ruolo di rilievo e garanzia fondamentali hanno anche le strutture in cui si articola la Giustizia europea: la Corte penale internazionale dell’Aja (CPI) e la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (CEDU). Alla prima, il 4 giugno 2019, un gruppo internazionale di avvocati ha presentato una denunzia. In essa l’Unione europea e alcuni Stati membri (tra cui Italia, Germania e Francia) sono accusati in sostanza di aver preferito sacrificare la vita dei migranti in mare per l’obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni simili dalla ricerca di un rifugio in Europa. Contribuendo in questo modo a che il Mediterraneo centrale sia diventata la rotta migratoria più letale del mondo. Non risulta che tale denunzia abbia ancora avuto risposta.

Invece è stato sollecitamente respinto, il 25 giugno, un ricorso alla CEDU del comandante della nave Sea Watch e dei 42 migranti a bordo che chiedevano di poter sbarcare in Italia.

La decisione (con tutto il rispetto dovuto) è piuttosto deludente, posto che la CEDU, giustamente rigorosa e sollecita nel misurare ogni volta i centimetri cubi e il sovraffollamento delle celle italiane per impedire condizioni di vita che si risolvano in trattamenti inumani o degradanti se non torture, questa volta sembra essersi ispirata a criteri assai meno garantisti, per di più con la chiosa in stile pilatesco del “contiamo sulle autorità italiane perché continuino a fornire l’assistenza necessaria alle persone a bordo della nave che siano vulnerabili a causa della loro età e delle condizioni di salute”.

C’è il rischio di trasformare la Sea Watch in una antica “galera”, nel senso storico di nave sulla quale si sconta una pena. Nel qual caso la CEDU dovrebbe quanto meno calcolare – con lo stesso scrupolo doverosamente destinato alle prigioni ordinarie – gli spazi entro cui i soggetti interessati sono costretti a (soprav)vivere. Altrimenti ecco il timore che la CEDU finisca per restare “prigioniera” di un isolamento e di una separatezza che le impediscono di cogliere l’essenza del problema.

Come quando, nel caso Contrada, operò una semplificazione della complessità (fisiologica) delle questioni concernenti la mafia. Arrivando a sostenere che fatti provati, certamente rientranti nel perimetro delle attività mafiose in forza del combinato disposto (110/416 bis) su cui si basa la configurabilità del concorso esterno, non potevano essere perseguiti perché all’epoca dei fatti medesimi era ancora in corso (come è sempre in corso, perennemente!) un’elaborazione giurisprudenziale. Come se fosse possibile riferirsi all’esempio manzoniano di don Ferrante, che negava la peste anche se ne morì.

Ps: quanto deciso dalla comandante della Sea Watch in queste ore è la “inevitabile conseguenza” (peraltro con risvolti che rischiano di essere drammatici e sproporzionati) della decisione della Cedu.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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