La sicurezza pubblica tra polemiche, direttive e chiusure di porti
Sui sistemi e iniziative per cercare di garantire livelli adeguati di sicurezza pubblica nel nostro Paese, le ultime folate di “aria fritta” arrivano da alcune città con autorità varie che si “sbizzarriscono” sul tema tracciando “zone rosse” interdette ad alcune categorie di persone o ricorrendo ai soliti “patti” e “protocolli” con organismi ed enti vari nella illusione che servano a qualcosa.
C’è, poi, chi, peggio ancora, parla di coinvolgimento nella tutela della sicurezza pubblica di guardie giurate che restano sgomente innanzi a compiti che nulla hanno a che vedere con le loro funzioni (tutela della proprietà privata, vigilanza degli stabilimenti, trasporto valori ed altre attività similari).
Siamo nella confusione totale sotto la spinta e l’approssimazione che arriva dal “centro” dove continua la narrazione sulla sicurezza a buon mercato, mentre gli arruolamenti, quelli straordinari, di operatori di polizia, annunciati nel periodo preelettorale dell’anno scorso possono aspettare e per ora arrivano solo quei pochi poliziotti e carabinieri che hanno terminato all’inizio dell’anno i corsi di formazione presso le rispettive scuole.
Così, si continuano a leggere le “sciocchezze” di un patto firmato a Genova pochi giorni fa tra lo stesso Ministro dell’Interno e la regione che “trasforma i vigili in veri poliziotti” (10 aprile), di ordinanze prefettizie emanate a Firenze ex art. 2 del TULPS eliminando la possibilità di circolazione a persone che sono state denunciate per alcune specie di delitti (con seri dubbi sulla legittimità di tali ordinanze emanate in pochissime eccezionali situazioni). Provvedimento analogo in fase di elaborazione anche a Pisa per “mettere al bando i balordi” (La Nazione, 13 aprile), sulla falsariga del provvedimento adottato l’anno passato a Bologna dall’allora prefetto e attuale capo di gabinetto del Ministro dell’Interno.
Nella “effervescente” Toscana non mancano altre iniziative e progettualità sulla sicurezza che si rifanno a stantii concetti (sinergie interistituzionale) e pratiche (protocolli d’intesa) mettendo in campo, si fa per dire, “mille occhi sulle città” (espressioni che, forse, possono suscitare nel cittadino comune, aspettative) con le guardie giurate che nei loro servizi (privati) possono raccogliere elementi di informazione utili per le forze di polizia per la prevenzione la repressione dei reati (compito che, in realtà, già viene assolto anche in virtù di un vigente e stretto collegamento dei vari istituti di vigilanza privata il cui regolamento di servizio viene approvato dal Questore della provincia).
Dunque, tutti più tranquilli con queste rassicuranti notizie?
Nessun cittadino lo pensa, mentre sono in tanti a chiedersi che fine hanno fatto gli annunciati arruolamenti straordinari di poliziotti e carabinieri.
Intanto il tempo passa, molti operatori delle forze dell’ordine vanno in pensione e quelli arrivati in alcune sedi sono quelli che hanno iniziato i corsi nel 2018.
Per colmare qualche buco dei tanti che ci sono negli organici, stando così le cose, occorreranno molti anni ed è semplicemente ridicolo pensare di risolvere i problemi della sicurezza e del degrado nelle città con gli ordini di allontanamento, i daspo urbani, il divieto di stazionamento, le multe ai posteggiatori abusivi (a Torino nessuno ha pagato le 826 multe comminate dalla polizia municipale).
Le polemiche sulla direttiva di Salvini
Provo a fare qualche sinteticissima considerazione, da “orecchiante del diritto” quale sono, sulla articolata direttiva (N.14100/141(8), emanata un paio di giorni fa dal Ministro dell’Interno sugli interventi in mare per i migranti, provvedimento che ha suscitato vivaci polemiche da parte dei vertici militari nazionali, che l’hanno considerato “ingerenza inaccettabile”, sottolineando che “non prendono ordini dal Ministro dell’Interno”.
Una presa di posizione che, francamente, mi pare un poco esagerata, anche se la direttiva è destinata esclusivamente (anche per questo, a mio parere, anomala) a “vigilare affinché il comandante e la proprietà della nave “Mare Jonio” si attengano alle norme vigenti”, richiamate in un lungo preambolo della direttiva stessa, in tema di soccorso e di organismi coordinatori.
Vediamo nel dettaglio.
Intanto, l’art.11 (“Potenziamento e coordinamento dei controlli di frontiera”) del testo unico sull’immigrazione del 1998, al comma 1 bis attribuisce al Ministro dell’Interno la facoltà di emanare “le misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre italiana”.
Queste assumono la forma di direttive (non di ordini) emanate ai prefetti per la promozione di quelle misure, appunto, “occorrenti per il coordinamento dei controlli di frontiera e della vigilanza marina (…) sentiti i questori e i dirigenti delle zone di polizia di frontiera nonché le autorità marittime e militari (..) eventualmente interessate”. Gli stessi prefetti, poi, sovrintendono alle direttive emanate in materia.
La direttiva del ministro Salvini, in effetti, è stata correttamente indirizzata al Capo della Polizia-Direttore Generale della PS, ai Comandanti Generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, ma anche al Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, al Comandante Generale delle Capitanerie di Porto e, per conoscenza, al Capo di Stato Maggiore della Difesa.
Conoscendo le “sensibilità” delle gerarchie militari e il loro rispetto, rigoroso, delle “forme”, forse sarebbe stato meglio indirizzare la direttiva “per conoscenza” (e, magari, per quanto di competenza) anche agli altri due vertici militari sopra indicati, perché, se è vero che il Ministro dell’Interno è Autorità Nazionale di pubblica sicurezza (ruolo che nella direttiva viene ricordato tre volte) come previsto dalla legge 121/1981, è anche vero che tale funzione gli consente di coordinare solo compiti e attività delle forze di polizia, avvalendosi dell’Amministrazione della pubblica sicurezza (il cui vertice è, appunto, il Capo della Polizia – Direttore Generale della PS).
Insomma, quella direttiva, forse, era meglio se ad emanarla fosse stato il Presidente del Consiglio dei Ministri, che è l’ organismo al quale si richiama proprio il terzo comma dell’art.1 (“Attribuzioni del Ministro dell’Interno”) della L.121/1981, rimandando alle sue competenze più generali, previste dalle leggi vigenti, in quanto Capo del Governo.
“Chiudere i porti”? Si, ma ai “mercanti” di stupefacenti
Nei giorni scorsi ancora un abbordaggio da parte dei militari della nostra Guardia di Finanza ad un veliero di 12 metri, battente bandiera spagnola, a circa 80 miglia a sud delle coste siciliane. A bordo tre cittadini spagnoli, tutti arrestati dopo il rinvenimento di un carico di oltre sei tonnellate di hashish, di diversa qualità, contenuto in 231 sacchi di iuta. Alcuni loghi – uno di una nota casa automobilistica tedesca – impressi sui sacchi indicavano la “proprietà” dei diversi esportatori partecipanti alla spedizione del carico destinato ai mercati italiano ed europeo.
Si è trattato della quinta imbarcazione con ingenti carichi di hashish e di marijuana sequestrate nel corso di operazioni in mare dai finanzieri negli ultimi otto mesi nel canale di Sicilia e in acque internazionali. A gennaio scorso, 650kg di marijuana erano state sequestrate, sempre in acque internazionali, nel canale di Otranto trasportate a bordo di un gommone proveniente dalla vicina Albania. E’, dunque, in mare che bisogna intensificare l’azione di contrasto al narcotraffico proveniente dai paesi africani (in particolare dal Marocco) e dall’area balcanica, se si vogliono conseguire risultati più soddisfacenti. E non solo per hashish e marijuana ma anche per la cocaina.
L’Italia è, infatti, insieme alla Spagna, all’Olanda, e al Belgio, l’approdo prediletto per le navi portacontainer che trasportano cocaina proveniente dai vari porti del Sud America (già oltre tre le tonnellate sequestrate solo nei primi tre mesi del 2019).
Hashish e marijuana restano,tuttavia, le due droghe di maggiore consumo in ambito nazionale. Per avere un’idea dei volumi globali immessi sul mercato nazionale si pensi che, nel 2017, sono state sequestrate oltre 90ton di marijuana e più di 18 ton di hashish sul totale di 114 ton di stupefacenti complessivi (dati DCSA). Nel 2018, secondo dati ancora ufficiosi, si parla di oltre 65 ton di hashish e poco più di 33 ton di marijuana tolti dal mercato grazie al lavoro di polizia e dogane.
Un giro di affari che frutta diversi miliardi di euro (con “ricadute positive”, lo ricordo, anche sul Pil nazionale) considerato che i sequestri, di norma, rappresentano soltanto una percentuale bassa (stimata in circa il 15-20%) sul totale degli stupefacenti commercializzati (che includono anche droghe sintetiche, droghe “etniche” e altre sostanze psicoattive).
Se, allora, “circa il 95% dello stupefacente sequestrato alle frontiere viene intercettato negli specchi di acqua prospicienti alle coste, in acque internazionali o all’interno del mare territoriale, e lungo la frontiera marittima” (relazione annuale DCSA), l’azione di contrasto va potenziata strategicamente lungo le rotte marittime, nella fase antecedente l’ingresso dei carichi di stupefacenti nel territorio nazionale. Questo prima ancora che, con la parcellizzazione nelle piazze di spaccio, diventi più problematica la repressione che colpisce, alla fine, in gran parte la manovalanza degli spacciatori che tornano presto in libertà.
I porti maggiormente interessati ai traffici di cocaina, hashish e marijuana sono, da anni, quelli di Gioia Tauro, Genova, Livorno, Palermo, Pozzallo, Lecce, Brindisi, Bari, Otranto, Ancona.
A nessuno è venuto mai in mente di “chiuderli” per impedire gli arrivi di decine e decine di tonnellate di droghe causa di tanti problemi per la sicurezza pubblica e per cercare di arrestare quel processo di narcotizzazione che prosegue nel generale disinteresse della classe politica dirigente.
La stessa che ha “chiuso i porti” alle navi che hanno soccorso gente in mare considerando gli equipaggi “mercanti di esseri umani”.
Trackback dal tuo sito.