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Il vizio italico di “limare le unghie” ai magistrati

Gian Carlo Caselli il . Istituzioni

bilancia giustiziaLa bagarre anti magistratura scatenatasi dopo la farsa dell’autorizzazione a procedere per il caso della nave Diciotti e dopo le  astiose polemiche sulle vicende processuali di Tiziano e Laura Renzi, é stata un’occasione d’oro per rimestare il problema della separazione delle carriere  fra PM e giudice.

Guai a dimenticare – innanzitutto – che in gioco c’è l’indipendenza della magistratura, cui si può applicare una frase di Calamandrei: “la libertà è come l’aria; ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Il magistrato italiano che abbia la schiena dritta, l’indipendenza (la libertà di decidere senza essere soggetto a palazzi o potentati politici, economici, culturali) la respira e la vive come elemento naturale. Per contro, la realtà di  tanti altri paesi è diversa.

Anni fa, incontrando a Vienna alcuni PM anticorruzione, li trovai in un momento di grande euforia per una novità giudicata “rivoluzionaria”.  Dipendevano dal Ministro della giustizia e le direttive di questi sulle inchieste (se farle o non farle, fino a che punto arrivare, quali personaggi escludere…) dovevano diligentemente osservarle. Ma gli “ordini” che prima erano soltanto “verbali” adesso  – ecco la grande novità – dovevano essere impartiti con  atto scritto da inserire nel fascicolo processuale.

Il fatto (sintomatico di una certa mancanza… d’aria) spiega bene che la separazione delle carriere è praticamente sinonimo di dipendenza del PM dal potere esecutivo. Nel senso che in tutti i paesi in cui (con modalità che possono essere diverse) c’è la separazione,  il PM – per legge ! – deve ottemperare a ordini o direttive. Vale a dire che poco o tanto, per un verso o per l’altro, non è indipendente. Sicuramente non è mai indipendente come nel nostro Paese.

E’ vero: separazione c’è, senza scandalo né scompensi, in paesi di autentica e robusta democrazia. Ma nel nostro paese, purtroppo, si deve registrare  una brutta anomalia rispetto alle altre democrazie occidentali. Non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti; ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso indicati “tout court” come…avversari politici). Questo invece è proprio ciò cui si assiste nel nostro Paese da oltre 25 anni, con un crescendo impressionante: un diluvio di insulti e calunnie volgari, da osteria, ma ossessivamente riproposti fino a trapanare i cervelli (si sa che a forza di ripeterle anche le fandonie più clamorose finiscono per sembrare vere…); il dilagare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé; l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata.

Ma la più grave anomalia  italiana è stata il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro: la difesa non tanto “nel” quanto piuttosto “dal” processo, con una sorta di impropria riedizione del cosiddetto «processo di rottura» da parte di pezzi di Stato (inquisiti “eccellenti” o comunque soggetti forti), mentre in passato a praticarlo erano sue antitesi, vale a dire opposizioni radicali,  fino alle “Brigate rosse”.

Dunque la storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati “scomodi” perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno, con “troppa” indipendenza. Questo malvezzo si è articolato anche a colpi di “leggi ad personam”, lodi assortiti, commissioni bicamerali e sistematici dinieghi di autorizzazioni a procedere. Con sullo sfondo una “inefficienza efficiente”, vale a dire l’irredimibile agonia  di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che  non vogliono mai pagare dazio. Tutto ciò disegna un  vero e proprio circolo vizioso, che ha coinvolto trasversalmente le forze politiche, quali più attive e quali meno, ma in ogni caso tutte interessate a “limare le unghie” della magistratura. Un circolo vizioso che si dovrebbe spezzare nell’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale. Perché l’indipendenza della magistratura non è un privilegio della casta dei magistrati ma un privilegio dei cittadini: l’unica loro speranza di poter davvero aspirare ad una legge uguale per tutti. Una speranza che la separazione delle carriere affosserebbe del tutto.

Qualcuno (lo so bene) obietterà che anche Falcone era per la separazione. Non vorrei partecipare al tavolino spiritico-giudiziario spesso usato per recuperare  le sue tesi, ma le riflessioni di Falcone riguardavano, più che la separazione delle “carriere”, la separazione delle “funzioni” fra PM e giudice: soluzione ontologicamente diversa, che ormai il nostro sistema ha da tempo adottato.

Il confine labile tra populismo e democrazia

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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