Aumentare il Pil con più narcotraffico, contrabbando e prostituzione?
In un rapporto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Centro interuniversitario Transcrime) redatto alcuni anni fa per conto del Ministero dell’Interno (PON-Sicurezza 2007-2013), si evidenziò che in Italia la maggior parte dei profitti illeciti derivava dal narcotraffico (mediamente 7,7 miliardi di euro), dall’estorsione (4,7 miliardi), dallo sfruttamento della prostituzione (4,6 miliardi) e dalla contraffazione (4,5 miliardi). Un totale di 21,5 miliardi di euro, poco meno di quello della manovra finanziaria del 2019.
Se, poi, considerassimo la stima dei profitti derivanti dal narcotraffico, fenomeno criminale lievitato negli ultimi anni (oltre 100 le tonnellate di stupefacenti sequestrate annualmente dalle forze di polizia nell’ultimo triennio, a conferma di un mercato in espansione), c’è da presumere che i proventi illeciti possano aver superato anche i 25 miliardi euro annui.
Un dato impressionante anche se quantificare le ricchezze di origine illecita che circolano nella nostra economia è sempre un esercizio particolarmente complesso.
Contributi autorevoli sono stati offerti anche da importanti organismi istituzionali come la Banca d’Italia che, in uno studio del 2012, aveva rilevato una incidenza della economia criminale sul Pil del 12,6%.
Due anni dopo, le autorità europee di statistica avevano consentito che l’economia criminale (traffico di stupefacenti, prostituzione, contrabbando di sigarette) facesse il suo ingresso ufficiale nel calcolo del Pil nazionale e l’Istat aveva valutato in un punto percentuale tale incidenza.
In questi giorni si fa un gran parlare dei rischi notevoli sulla crescita dell’Italia per il 2019, un rallentamento che, in effetti, si rileva anche in altri Paesi dell’UE ma che da noi – come ha dichiarato il Governatore della Banca d’Italia, Visco – può trasformarsi in vera recessione considerate le debolezze del sistema italiano nel suo complesso.
Verrebbe, quindi, da pensare, anche se può sembrare un’affermazione suggestiva, che un incremento di capitali “sporchi” contribuisce a tenere su il livello della ricchezza nazionale anche se ciò vuol dire riconoscere che l’economia mafiosa è una componente della ricchezza stessa.
Una interpretazione che ha rifiutato nettamente la Commissione parlamentare Antimafia della passata Legislatura redigendo la corposa, interessante relazione conclusiva del febbraio di un anno fa.
E’ un dato di fatto, peraltro, che lo stesso Governatore Visco nella audizione innanzi all’Antimafia del 14 giugno 2015, citando dati Istat, parlava di una incidenza dello 0,9% dell’economia illegale sul Pil, simile a quella della Spagna e lievemente superiore a quella del Regno Unito (0,7%).
Qualcuno potrebbe spingersi a considerare questa legalizzazione statistica dei proventi della criminalità un contributo importante per risollevare un Pil nazionale in affanno e, magari, persino ad auspicare di chiudere un occhio (temporaneamente) sul traffico di droghe (o pensare alla loro legalizzazione che comporterebbe entrate apprezzabili nelle casse statali) e sulle altre attività delinquenziali.
Sarebbe una interpretazione sciagurata e fuorviante perché la verità è che “il fatturato dell’attività criminale sottrae una pari quantità di risorse all’attività legale e, come tale, di per sé crea un impoverimento dell’economia”.
Un fatturato, come ricordava l’Antimafia, che a cascata produce altri effetti negativi con un costo ulteriore. La politica che avrebbe dovuto avviare “una profonda riflessione” – auspicata dall’Antimafia – su questa modalità di ricalcolo del Pil “apparentemente più favorevole sul solo piano dei conti nazionali” non lo ha fatto e credo non lo farà neanche nel prossimo futuro.
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