La fine di El Chapo, il potente narcos messicano del cartello di Sinaloa
Difficile immaginare che El Chapo, il capo indiscusso del più temibile cartello messicano di narcos, riconosciuto nei giorni scorsi colpevole dal tribunale di Brooklin per ben dieci capi di imputazione, riesca ancora a farla franca di fronte alla giustizia.
Anche perché, stavolta, contrariamente alle vicende passate, si tratta della giustizia americana non incline a fare sconti a nessuno. La condanna all’ergastolo pare, insomma, scontata al termine di un processo durato alcun mesi e che ha visto testimoniare ben 56 persone facendo emergere uno spaccato del cartello di Sinaloa, di cui El Chapo era (è?) il capo, davvero impressionante.
A parte la disponibilità della organizzazione di aerei, treni cargo, semisommergibili per il trasporto di ingenti quantitativi di cocaina (ma anche di eroina e droghe sintetiche) verso il mercato americano (l’accusa ha sostenuto il traffico di 200 tonnellate di droghe per circa 14 miliardi di dollari), il processo ha fatto emergere quello che, in effetti, era noto a molti e cioè la diffusa corruzione che in Messico investe molti settori delle istituzioni, a partire dai vari corpi di polizia anche ai massimi livelli (il responsabile della sicurezza pubblica nazionale), per finire ai vari esponenti politici dei vari Stati e per toccare persino l’ex presidente Enrique Pena Nieto che avrebbe incassato 100 milioni di dollari quale contributo del cartello alla campagna elettorale del 2012.
Niente di nuovo sotto il sole a ben vedere se si da uno sguardo ai tanti episodi corruzione in cui sono rimasti coinvolti, in passato, molti presidenti di vari Paesi del centro sud America (a partire dalla Colombia con l’allora presidente Samper, al Perù, con Fuijmori, a Panama, con Noriega).
Difficile, dicevamo, che El Chapo possa evadere dal carcere americano dove si trova ristretto da quando, il 19 gennaio 2017, venne estradato dal Messico, a bordo di un Bombardier Challenger messo a disposizione delle autorità americane e scortato dagli agenti della Dea.
L’ultima rocambolesca fuga del narcotrafficante risaliva a luglio del 2015, dal carcere di massima sicurezza di Almoloya, quando si era infilato in un tunnel di circa 800 metri scavato in tutta tranquillità da una vecchia fattoria in prossimità del carcere per essere, poi ricatturato nel gennaio del 2016.
Un duro colpo, senza dubbio, per il cartello di Sinaloa che, nonostante altre perdite pure importanti subite negli ultimi due anni (tra cui l’arresto, nel maggio 2017, di Damaso Lopez Nunez detto El Licenciado, di Geovanny Gonzales Sepulveda, di Victor Manuel Felix Beltran), continua ad avere un ruolo di primissimo piano nel panorama criminale messicano e non solo.
Perdite che evidenziano, tra l’altro, una lotta intestina al cartello per assumere la leadership ed in questo senso le valutazioni conseguenti alla cattura di El Licenciado favorita dalla fazione del cartello che fa capo ad Aureliano Guzman Salazar, fratello di El Chapo e ai due figli Ivan Archivaldo e Alfredo Guzman Salazar.
Una situazione, dunque, estremamente in evoluzione mentre negli USA si sono messi con grande impegno nell’azione di repressione delle varie cellule del cartello di Sinaloa presenti, da anni, in diverse città americane.
In questo quadro si colloca una delle ultime operazioni antidroga iniziata a Los Angeles tre anni fa dalla Dea e dal Fbi e conclusasi nell’agosto dello scorso anno con l’arresto di 22 persone, il sequestro complessivo di una tonnellata di cocaina e di 1,4 milioni di dollari in contanti. Piccoli successi di una guerra contro la droga che è persa da anni a livello mondiale.
Una guerra che, forse, non si vuole vincere perché molti ne traggono profitti, non solo economici.
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