Il “muro” di Trump e la guerra (persa) al narcotraffico e all’immigrazione clandestina
Il presidente americano Trump continua a pensare che la costruzione (meglio,ultimazione) del muro lungo tutto il confine con il Messico sia una questione di sicurezza nazionale in relazione alla temuta “invasione” (espressione usata spesso anche dalle nostre parti) di immigrati del centro-sud America e al narcotraffico. Qualcuno del suo staff gli avrà pur detto che questa “barriera” – se mai si completerà –non fermerà né attenuerà mai il traffico di migranti, di stupefacenti, di armi.
Da decenni, infatti, il confine con il Messico è diventato una sorta di “groviera” con alcune centinaia di gallerie (narcotunnel) scavate per consentire i passaggi di carichi di droghe e di migranti. Se ne sono contate almeno 250 negli ultimi dieci anni, alcune attive, altre in fase di ultimazione, diverse lunghe anche molte centinaia di metri, ma tutte estremamente ben attrezzate, con impianti di aereazione, illuminazione, rotaie per consentire il trasporto della “merce”. E quando si è pensato, in alcuni tratti confinari più a rischio (Nogales, Tijuana) di interrare per diversi metri persino lastre di acciaio per impedire gli scavi, tali “corridoi” sono stati realizzati a maggiori profondità senza grossi problemi per i trafficanti.
A questi passaggi artificiali si aggiungono i “lanci” di stupefacenti a ridosso del confine fatti con rudimentali ma efficaci fionde e balestre montate su fuoristrada per catapultare pacchi e pacchetti di droghe oltre confine. Non son mancate, più recentemente, consegne di droghe recapitate con i droni mentre per carichi consistenti, di qualche tonnellata, provvedono i “sottomarini” colombiani con l’appoggio logistico dei cartelli messicani. Almeno una quindicina i minisommergibili sequestrati in navigazione dalla Marina Militare colombiana nel corso del 2018 ed altri sono stati intercettati dalle forze navali americane e costaricensi. Queste imbarcazioni, costruite in cantieri navali rudimentali nascosti nella giungla del Cauca (Colombia), sono in fibra di vetro o ferro e nella stiva possono trasportare fino ad una decina di tonnellate di cocaina. Di ben diversa dimensione rispetto a quello sequestrato dalla Polizia Antinarcotici (che ebbi occasione di vedere personalmente) un quarto di secolo fa, in una piccola insenatura nei pressi di Cartagena, al nord della Colombia, in grado di trasportare al massimo mezzo quintale di cocaina.
In genere questi “submarinos” sono dotati di due motori, di un piccolo generatore, di un sistema Gps, di una radio, navigando ad una velocità media di una quindicina di nodi per tragitti anche di 5mila chilometri. Insomma, tutto lascia immaginare che i maggiori controlli che ci saranno al confine con il Messico indurranno i narcos ad intensificare il trasporto di stupefacenti via mare utilizzando non solo quella che è stata, sino ad oggi, la rotta preferita e cioè quella del Pacifico (le condizioni meteo sono più favorevoli) ma anche quella caraibica. Senza contare le innumerevoli modalità di occultamento nell’invio di stupefacenti che continua a registrarsi in molti Stati americani. A partire da quantitativi,anche notevoli, nascosti in plichi e pacchi o all’interno della merce più svariata come prodotti cosmetici, alimentari, ricambi meccanici, capi di abbigliamento, giocattoli, utensili, effetti personali. Tra le tecniche più sofisticate vi è quella di impregnare di cocaina, con semplici procedimenti chimici, stoffe e materiale cartaceo.
Insomma, non sarà certo il muro di Trump che attenuerà il flusso delle centinaia di tonnellate di cocaina e di eroina che ogni anno dalla Colombia e dal Messico vanno a rifornire il sempre più “affamato” mercato dei consumatori americani.
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