Dall’Emilia alla Toscana
Ci sono processi che sono chiamati a lasciare il segno nella storia delle mafie in Italia. Il maxi processo Aemilia con i suoi quasi 150 imputati, e le sue 118 condanne in primo grado, è certamente un evento che fa da spartiacque tra un prima e un dopo.
Un prima dove ancora molti pensavano che le mafie esistessero solo in Campania, in Sicilia, in Calabria e in Puglia, e un dopo, quello che da oggi stabilisce l’esistenza conclamata di una ‘ndrina della ‘Ndrangheta attiva da anni in Emilia e nel mantovano con epicentro a Reggio Emilia diretta emanazione della cosca Grande Aracri di Cutro, ma autonoma e indipendente da essa.
Certo siamo al primo grado di giudizio e tutti gli imputati sono innocenti fino al terzo grado di giudizio, ma quello che preme sottolineare in questa circostanza è che la ‘Ndrangheta ha iniziato a mettere le proprie radici nel nord Italia.
Gli oltre 1.200 anni di carcere inflitti dal collegio giudicante (una lettura durata oltre un’ora) danno la dimensione di un fenomeno che non si può più nascondere e che deve scuotere invece un’opinione pubblica che ancora oggi ha difficoltà ad accogliere questa realtà.
Lo dimostra la recente indagine compiuta in tutto il paese da Libera all’interno del progetto Liberaidee che è stata presentata in questi giorni proprio in Toscana e anche in Valdarno, in un bellissimo incontro che si è svolto a Figline e che ha coinvolto anche i lavoratori della Bekaert.
Da questa indagine emerge che a fronte di una maggioranza (il 75%) di persone che indica come globale la presenza delle mafie in Italia, solo il 38% dichiara che la mafia dove abita è un fenomeno preoccupante e la sua presenza è socialmente pericolosa, mentre il 52% si divide tra coloro che la ritengono marginale e coloro che la ritengono preoccupante ma non socialmente pericolosa.
C’è difficoltà ad capire che le mafie sono ormai una questione nazionale e la resistenza viene maggiormente proprio dalle regioni che determinano l’andamento dell’economia nazionale come l’Emilia, la Lombardia, il Veneto e anche la nostra Toscana.
Al momento in Toscana la situazione non è grave come appare in Emilia, come sembra essere in Piemonte seguendo gli sviluppi del processo Minotauro (iniziato nel 2011 e giunto al secondo grado di giudizio), come sembra emergere in Lazio a Roma (processo Mafia Capitale) e ad Ostia (con le vicende della famiglia Spada), ma tutti i cittadini e le istituzioni locali sono chiamati ad essere vigili e attenti perchè la nostra regione (e anche il nostro Valdarno), sono interessati dal fenomeno.
Grazie al lavoro di magistrati, forze dell’ordine e dei pochi giornalisti che fanno inchieste sulle organizzazioni criminali emerge che in Toscana si ha notizia che 78 clan delle varie mafie fanno o cercano di fare affari nei nostri territori, dove ci sono stati oltre 230 tra arresti e denunce nel 2017 per accuse di reato legati con l’aggravante mafiosa, (4^ regione in Italia, la prima dopo Sicilia, Campania e Calabria), e Prato è la provincia dove più alti sono i reati legati al riciclaggio.
La mafia sembra essere sempre un problema del quartiere accanto o della Regione vicina, ma mai il nostro e il negazionismo in questo caso è la più grande fortuna delle mafie.
E non possiamo neanche pensare che il fenomeno potrà essere sconfitto da magistrati e forze dell’ordine o da chi nel tessuto sociale si occupa di questi temi e vive l’esperienza dell’antimafia.
E’ invece necessario uscire dall’antimafia degli specialisti, perchè il tema delle mafie deve essere patrimonio di conoscenza dei cittadini.
Non dobbiamo permettere che quanto accaduto nella vicina Emilia, avvenga anche qui, contaminando il nostro tessuto sociale ed economico.
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