Ci mancava solo la mafia nigeriana in Italia
Alcuni giorni fa Millenium, il mensile de Il Fatto Quotidiano, ha riportato alcuni interessanti articoli sulla presenza della mafia nigeriana in Italia, basandosi anche sulle testimonianze di un pentito. Una situazione davvero inquietante anche per un’azione di repressione che evidentemente è stata inadeguata, insufficiente, negli anni passati. E, temo, lo sia ancora. Nonostante le precise informazioni fornite dai nostri servizi di intelligence e dagli uffici centrali del Dipartimento della Pubblica Sicurezza (Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato) che, sin dal gennaio 2005, mettevano in guardia le strutture investigative di ben 26 Questure, sui “..rischi e minacce concernenti il fenomeno criminale nigeriano”. Criminalità che, fin dal 2003, si stava orientando verso associazioni criminali di tipo mafioso come sottolineava la Commissione parlamentare Antimafia nella relazione del luglio di quell’anno (cfr. “La criminalità organizzata degli stranieri in Italia”, relatore On. Giuseppe Lumia, XIII Legislatura, doc. XXIII).
Non si può certo dire che sia siano tradotte in azioni concrete di (forte) contrasto i pericoli, già allora attuali e reali, evidenziati dalla Commissione che, con riferimento alla criminalità nigeriana, ne sottolineava la “..forza e la vitalità del vincolo associativo fondato sull’appartenenza familiare, tribale o etnica, garantito dall’ubbidienza, dall’omertà dei sodali e dallo stato di intimidazione delle vittime..”. Ma, ancor di più, la minaccia della criminalità nigeriana era collegata alla “..pervasività derivata dalla infiltrazione nella diaspora della popolazione nigeriana nel mondo (…) al riscontro oggettivo delle interconnessioni criminali a livello transnazionale (…) alla uniformità delle metodiche adoperate nella gestione dei traffici illeciti, con speciale riguardo anche al costante mimetismo operativo..”. Questa tendenza ad evitare conflittualità e a tenere profili bassi (soprattutto dopo interventi giudiziari), ha determinato una notevole capacità di spostamento sul territorio e di adattamento al nuovo contesto ambientale. Un modello criminale in grado di affermarsi fortemente, ma più “sistema” che unica struttura, più articolato su “gruppi” avviati e con specializzazioni in specifici comparti. Insomma, più struttura reticolare e sicuramente una delle più potenti del mondo come ho avuto occasione di scrivere già nel 2005 (cfr. Mafia gialla, mafia nera, Ed. Berti, Piacenza, 2005).
In Italia è sin dagli anni Ottanta che si è registrata la presenza di consistenti comunità di nigeriani, in particolare in Piemonte (con Torino in testa), in Lombardia, in Veneto e in Emilia Romagna. Successivamente, la presenza di gruppi malavitosi nigeriani stabilmente organizzati si è spostata anche al centro-sud insediandosi in modo capillare in Campania, nel casertano e sul litorale Domitio. Le originarie attività illecite, commesse da gruppi isolati, hanno acquisito un peso maggiore nel panorama criminale italiano conquistando le zone grigie del mercato ossia quelle non controllate dalla criminalità organizzata italiana che, tradizionalmente, considera lo sfruttamento della prostituzione un’attività di basso profilo (e poco redditizia) ed utilizza manovalanza criminale straniera per lo spaccio su strada degli stupefacenti. Su quest’ultimo punto, tuttavia, la situazione è mutata nel tempo grazie alla “capacità di saldatura con gruppi mafiosi di elevatissimo spessore nell’acquisto di stupefacenti” e alla “capacità di gestire dinamicamente le attività di riciclaggio e reimpiego del denaro di provenienza illecita”.
Nel decennio 2008-2017, le forze di polizia hanno denunciato all’autorità giudiziaria per narcotraffico complessivamente 8.481 nigeriani con il picco in assoluto più elevato nel 2017 con 1.689 (fonte, DCSA, relazioni annuali). Quest’ anno, alla data del 30 ottobre, i nigeriani denunciati sono stati 1.022 (dato provvisorio) mentre si va consolidando sempre di più la loro strategia nel narcotraffico che è la ricerca continua di nuove rotte con passaggi in “zone protette” ossia in Paesi terzi dove hanno creato comunità di espatriati.
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