Un Vangelo per le periferie con padre Pino Puglisi
Un ritratto di padre Pino Puglisi per ricordare, a 25 anni dalla sua morte, non solo il suo martirio ma il suo itinerario umano ed ecclesiale che ne fanno un simbolo di resistenza nella lotta alla mafia.
Il quartiere Brancaccio a Palermo sarà una delle tappe della visita che papa Francesco farà in Sicilia il prossimo 15 settembre. Un luogo e una data non casuali, visto che quello stesso giorno, in quello stesso luogo, venticinque anni fa padre Pino Puglisi (1937-1993) fu ucciso di fronte alla sua abitazione dalla mafia a causa del suo lavoro pastorale ed educativo con i giovani. D’altronde, tutta la vita di Puglisi è stata spesa nelle “periferie umane ed esistenziali” del suo tempo. Qui si può cogliere una tensione che lega il prete palermitano a una vasta corrente di rinnovamento ecclesiale. Già negli anni ’50 usciva un romanzo di un grande scrittore francese, Gilbert Cesbron, che raccontava in modo appassionato la missione dei preti operai, sacerdoti che avevano scelto di andare a vivere e lavorare nella banlieue parigina per colmare la lontananza tra la Chiesa e il mondo operaio delle grandi città. Il titolo del romanzo era I santi vanno all’inferno: l’inferno era la periferia, la povertà umana e culturale di un popolo a cui la Chiesa non riusciva più a parlare e per questo si interrogava su come rinnovare la propria missione.
Al di là delle differenze e della distanza temporale che separa la vicenda narrata nel romanzo dalla storia di Puglisi, anche il prete siciliano, beatificato nel 2013 come primo martire ucciso per mano della mafia, è stato un cristiano che non ha avuto paura di andare all’inferno per vivere la sua missione (cfr Ceruso 2012), mosso dalla convinzione che non esistesse una circostanza in cui non fosse possibile annunciare la buona notizia che Gesù è morto e risorto per noi.
La sua vocazione di missionario in terre di periferia è una costante nella sua vita, come testimoniano i diversi luoghi in cui ha vissuto. Per alcuni osservatori esiste un Puglisi prima della sua esperienza a Brancaccio e un Puglisi dopo il suo arrivo nel territorio dove sarebbe stato parroco tra il 1990 e il 1993, anno della sua morte1. Un attento esame delle vicende della sua vita dimostra quanto sia infondata una simile lettura, che privilegia l’arrivo a Brancaccio come momento di rottura rispetto a una vita che sarebbe trascorsa nel segno della mediocrità. Al di là delle difficoltà che dovette affrontare, Puglisi non aveva mai vissuto da mediocre e aveva sempre cercato di leggere la realtà per trasformarla alla luce del Vangelo.
L’esperienza con i terremotati del Belice
Il ventiseienne padre Puglisi fu ordinato sacerdote nel 1953, quando a guidare la Chiesa palermitana era il cardinale Ernesto Ruffini, uno degli esponenti di punta del fronte che si opponeva al rinnovamento conciliare. Al tempo stesso, però, da uomo fedele alla Chiesa qual era – è stato definito «un curiale tra carità e cultura» (Romano 2002, 42) – Ruffini si adoperò per una corretta recezione del Concilio in Sicilia. Il vescovo mantovano era un raffinato esegeta, ma anche un pastore attento alle esigenze sociali del suo popolo. Egli viene spesso ricordato per il suo impegno politico al fianco della Democrazia cristiana, per l’acceso anticomunismo e per la negazione del fenomeno mafioso. Ma le sue convinzioni vanno inquadrate nel contesto dell’epoca, con il sorgere della Guerra fredda e la persecuzione della Chiesa nei Paesi comunisti. Anche la sua visione della mafia era alimentata da quelle che erano opinioni diffuse in quel periodo, anche presso larga parte della magistratura isolana (cfr ivi).
Volendo indicare una prima svolta nella vita di Puglisi, dovremmo menzionare il 1968. In quell’anno Puglisi accompagnava un gruppo di laici appartenenti al movimento ecclesiale Crociata del Vangelo, molto attivi nelle terre del Belice dopo il disastroso terremoto che aveva causato centinaia di morti e migliaia di sfollati, costretti a vivere in baracche di lamiera, abbandonati al loro dolore per la perdita dei loro cari. Puglisi si recava in questo mondo senza speranza e portava aiuti, si dava da fare ma, soprattutto, celebrava la liturgia agli angoli delle strade per quelle persone provate. Non si trattava dell’entusiasmo di un giovane sacerdote. Lungo tutta la sua vita Puglisi non si rassegnerà mai all’irrilevanza. Dove tanti rinunciavano, lui pensava che fosse sempre possibile fare qualcosa: celebrare una liturgia, pregare. Ma la liturgia e la preghiera non erano per lui l’ultima spiaggia a cui si ricorre quando non c’è più nulla da fare, erano le fondamenta su cui costruire un inizio, o un nuovo inizio, per la comunità cristiana.
La comunità di Godrano
Dopo l’esperienza del Belice, Puglisi ebbe modo di sperimentare in altre situazioni difficili la sua vocazione di costruttore di comunità. Nel 1970 fu nominato parroco a Godrano, un piccolo Comune nell’entroterra palermitano, dove rimase fino al 1978. Gli inizi non furono affatto facili. Anche qui si riproponevano, in tutta la loro virulenza, le dinamiche tipiche della faida mafiosa: numerose famiglie custodivano la memoria della vendetta e la trasmettevano alle nuove generazioni, unitamente al disprezzo verso gli appartenenti al clan rivale. In tale condizione, anche le più semplici attività parrocchiali, dal catechismo alla liturgia domenicale, richiedevano enormi sforzi e si scontravano con l’ostilità reciproca.
Puglisi era molto amareggiato per quella situazione, al punto forse di non ritenersi all’altezza del compito assegnatogli. Comprese che in quelle circostanze non poteva limitarsi a gestire la vita quotidiana della parrocchia, ma occorreva prima di tutto ricucire un tessuto umano. Cominciò con il chiamare in suo soccorso gli amici palermitani, in particolare coloro con cui si era recato nel Belice, e propose ai suoi parrocchiani di incontrarsi nelle case per leggere la parola di Dio: nacquero così i cenacoli del Vangelo, che suscitarono un profondo desiderio di un cambiamento effettivo nella vita di ciascuno. Con pazienza, il sacerdote riuscì ad acquistare la fiducia di tanti e a riportare gradualmente la gente in chiesa. Le liturgie iniziarono a essere frequentate, come i corsi di catechismo per i bambini.
Lo stesso Puglisi raccontò un episodio che lo aveva segnato in quegli anni: una donna, il cui figlio era stato ucciso nel corso della faida che insanguinava il paese, avvertiva una profonda frattura tra la preghiera, l’ascolto del Vangelo e i sentimenti di odio che continuava a covare verso la donna che aveva partorito l’assassino di suo figlio, lo aveva cresciuto e probabilmente lo aveva educato a obbedire alle leggi della faida. Si potrebbe sminuire il rilievo di questa presa di coscienza, ma l’esperienza, soprattutto in territori ad alta densità mafiosa, ci dice invece che sono numerosi coloro che non avvertono alcuna contraddizione tra la propria adesione al cristianesimo e quella ai disvalori della criminalità. Riportiamo uno stralcio di quanto scritto da padre Pino: «Una signora viene un giorno e mi dice: “Padre, le cose sono due, io non ce la faccio più. Se non faccio pace con la madre dell’uccisore di mio figlio non si fa più il cenacolo a casa mia”. Dico: “Allora facciamo pace”; “Ma come faccio?” mi risponde la signora. Dico: “Lei continui a fare i cenacoli, vedrà che il Signore le darà l’occasione”. Le strade d’allora non erano asfaltate o lisce, fatte con il ciottolato (e in questo caso fu una fortuna). La madre dell’uccisore, che era pure colpevole perché aveva sollecitato la vendetta, scivolò e cadde davanti la casa di questa signora che voleva rinunciare al cenacolo. Allora questa corre, la prende in braccio e fanno pace nonostante le critiche della gente che disse: “Perché non le brucia più il figlio?”. Quasi che avesse dimenticato il figlio morto!» (Ceruso 2012, 73). Puglisi aveva saputo creare un clima in cui era possibile il perdono.
Gli uomini e le donne del paese avevano iniziato ad avvertire che il Vangelo andava vissuto nella vita di ogni giorno. Era una rivoluzione religiosa. Francesco Deliziosi, allievo e biografo del prete palermitano, ha scritto: «Passarono gli anni, la chiesa si riempiva sempre di più. Padre Pino convinse persino uno dei ˝patriarchi˝ del paese, chiamato il Gobbo, e suo figlio ad assistere alla messa» (Deliziosi 2013, 107). Se consultiamo gli atti della prima Commissione parlamentare antimafia, vediamo che “il Gobbo”, colui che viene eufemisticamente denominato patriarca, era il capomafia del paese e uno dei protagonisti della carneficina che aveva causato decine di morti. Non sappiamo quanto fosse consapevole della caratura criminale del personaggio, ma Puglisi non era certo un ingenuo e il fatto che avesse deciso di invitare alla messa il capomafia di Godrano dimostra che egli non aveva alcun timore nello sviluppare una pastorale rivolta ai mafiosi2.
Il Centro sociale di via Decollati a Palermo
Durante gli anni a Godrano, nel 1973, padre Puglisi rispose all’appello di una sua amica, l’assistente sociale missionaria Agostina Aiello, che lo aveva conosciuto e apprezzato in una colonia diocesana per bambini e che era impegnata a fianco dei più poveri in via Decollati, nel quartiere Oreto, una borgata periferica di Palermo. Puglisi accettò il doppio, gravoso impegno e con la sua automobile percorreva ogni settimana le decine di chilometri che separavano Godrano dal capoluogo.
Il compito a cui era chiamato a Palermo, a fianco dei giovani che tanto amava, gli serviva, forse, anche per lasciarsi alle spalle le preoccupazioni pastorali a cui, almeno all’inizio, non riusciva a dare risposta a Godrano. Ma anche il territorio intorno a via Decollati presentava sfide complesse. Come racconta Agostina Aiello: «Gli abitanti, privi della più elementare cultura, sono quasi tutti cenciaioli, pescatori, venditori ambulanti, factotum, per cui si può facilmente intuire quanto gravi e numerosi siano i problemi economici, morali, psicologici, educativi, igienici, sanitari, spirituali, eccetera. Diffuso è l’analfabetismo, l’abbandono morale e materiale dei minori; esiste anche il problema della disoccupazione e sottoccupazione. Molte donne sono costrette ad abbandonare la casa e i figli per prestare la propria opera come lavoratrici domestiche presso terzi» (Deliziosi 2013, 112).
In quel contesto, Agostina e padre Puglisi crearono un centro sociale e chiamarono a lavorarvi alcuni studenti del liceo in cui il sacerdote insegnava in quel periodo. I giovani, provenienti da un ambiente borghese della città, si confrontavano probabilmente per la prima volta con la povertà di un quartiere che non avevano mai avuto occasione di conoscere. Via Decollati, pertanto, divenne per loro un luogo in cui mettere alla prova alcune delle parole d’ordine di quegli anni. Nei verbali delle riunioni di allora ricorrono espressioni come “rivoluzione”, “giustizia”, “ordine costituito”. Lo sforzo di Puglisi era quello di dare concretezza alle aspirazioni di ciascuno, costruendo passo dopo passo un tessuto comune di idee e progettualità. Insieme a tutto questo, egli non si sottraeva al suo compito spirituale, per proporre ai giovani formule che fossero più vicine al sentire del tempo. Nelle riunioni con padre Pino i ragazzi erano invitati a trovare la risposta alle loro domande alla luce del Vangelo, letto e commentato insieme: «Per i cristiani è necessaria una vera e profonda cultura religiosa. Infatti essa è indispensabile per noi che siamo chiamati a continuare l’opera di Gesù, liberando noi e gli altri dal Male che è odio, sopraffazione, ingiustizia» (ivi, 113)3.
Il Centro sociale di via Decollati non rappresentava solo la traduzione, sul piano delle istanze sociali, del rinnovamento conciliare. Si trattava di una piccola comunità attrattiva per i giovani, con un progetto di liberazione per i poveri a cui si rivolgeva. Leggiamo in una relazione che Puglisi avrebbe scritto per le assistenti sociali qualche anno dopo: «Quando una comunità vive questo tipo di comunione, comunione con Dio, quindi preghiera, e comunione fraterna, allora è davvero una comunità che chiama. Nel mondo di oggi, dove tutte le attività sono compiute soltanto se producono qualche cosa, se sono produttive e remunerative, diventa come un atteggiamento che rompe una mentalità. La comunione fraterna, in una società dove prevale la violenza, l’arrivismo, la lotta degli uni contro gli altri, la lotta per il benessere, ecc., diventa segno soprattutto per i giovani, che vanno cercando proprio la giustizia, la parità, la fraternità e non la trovano altrove; così la comunità diventa segno e attrae»4.
Il sogno del Centro Padre Nostro
L’arcivescovo di Palermo, il cardinale Salvatore Pappalardo, nominò padre Puglisi parroco della chiesa di San Gaetano a Brancaccio nel 1990, dopo che numerosi presbiteri avevano rifiutato di accettare l’incarico5. Il parroco precedente aveva improvvisamente lasciato una comunità attraversata da un grande fermento, ma segnata da una forte connotazione politica di sinistra. Pino Puglisi tentò di collegarsi a quell’esperienza, ma il rapporto con il gruppo di giovani che si trovava in parrocchia, dopo un primo tentativo di confronto, si logorò rapidamente. Probabilmente il robusto pragmatismo del nuovo parroco mal si conciliava con le convinzioni ideologiche di quel collettivo di giovani, pure animato dalle migliori intenzioni. Padre Puglisi non era un idealista, «la cui tentazione sarà sempre di proiettare lo schema ideale sulla realtà» (Francesco 2015, 266), i suoi progetti nascevano piuttosto dal confronto con la realtà.
Uno dei problemi che maggiormente lo assillava riguardava le condizioni di vita dei palazzi di via Hazon, una sorta di periferia nella periferia. All’inizio degli anni ’80 numerose famiglie del centro storico della città erano state letteralmente deportate negli anonimi palazzoni costruiti in quella sorta di enclave, senza servizi né collegamenti con il centro. In una relazione rivolta agli altri parroci del comprensorio, Puglisi illustrava le radici della povertà del quartiere: «A Brancaccio la popolazione dell’antica borgata risaliva a circa tremila persone, il resto è dato da popolazione proveniente sia dal centro storico che da altre parti della città. C’è da ricordare che coloro che provengono dal centro storico si trovano concentrati in due enormi palazzi: uno è quello di via Azolino Hazon n. 18, l’altro è situato in via Simoncini Scaglione n. 8; poi vi sono altre famiglie, inserite in altri palazzi, che si sono portata dietro quella povertà di cui soffrivano nell’ambiente del centro storico»6. Intere generazioni erano cresciute prive di ogni sbocco culturale e professionale: «Le povertà esistenti, quindi, in questa zona e nella zona delle case popolari sono di tipo culturale; molti non hanno conseguito la licenza elementare, molti non conseguono quella media e una buona parte è analfabeta. Noi, come parrocchia, affiancati dal centro d’accoglienza, abbiamo promosso dei corsi di alfabetizzazione. C’è inoltre povertà anche dal punto di vista morale ed etico: in molte famiglie non ci sono principi etici stabili, ma vengono dati dalla situazione del momento e dalle necessità» (ivi).
Ad un certo punto Puglisi si rese conto che le attività nel quartiere non potevano consistere solo in una serie di interventi occasionali. In troppi non erano raggiunti dall’azione pastorale. Padre Pino fu particolarmente colpito dal ritrovamento, a poca distanza dalla parrocchia, del corpo di un anziano morto da solo in casa. Nessuno lo aveva cercato per tre giorni. Nacque allora in lui la decisione di dar vita al Centro Padre Nostro, un centro polifunzionale che avrebbe dovuto attuare interventi rivolti ai minori, agli anziani, alle famiglie in difficoltà. Il nuovo parroco scelse di farsi aiutare da volontari, suoi amici che provenivano da ogni parte della città, tra cui molti ex allievi delle scuole in cui aveva insegnato religione; invitò anche delle suore sue amiche a stabilirsi nel quartiere, per dare una stabilità all’azione del Centro.
Iniziava a delinearsi la visione della comunità così come intensa da Puglisi, imperniata sulla chiesa parrocchiale con le sue attività, tra le quali una rinnovata vita della confraternita, sottratta alle infiltrazioni della criminalità mafiosa, e sul Centro Padre nostro, animato dalle suore e dai volontari. Una comunità che non viveva ripiegata su se stessa, ma era capace di stringere alleanze con quanti, nella società civile di Brancaccio, non erano rassegnati allo status quo. In particolare, il parroco di San Gaetano si era legato alle iniziative di un Comitato intercondominiale che promuoveva alcune battaglie fondamentali per il quartiere, a cominciare dalla bonifica di alcuni locali in via Hazon da sottrarre alla criminalità per la costruzione di una scuola media. Puglisi fece sue le proposte del Comitato e s’impegnò perché trovassero ascolto presso le istituzioni, pur senza molti risultati concreti. Una scuola media sorgerà a Brancaccio solo dopo la morte del sacerdote. I mafiosi avevano però compreso bene quanto fosse pericoloso il modus operandi di Puglisi, che aveva iniziato a incidere sul territorio proprio perché aveva iniziato a rompere l’isolamento di Brancaccio rispetto al resto della città.
Puglisi non voleva fare della sua parrocchia un baluardo antimafia, una specie di fortino degli onesti in un territorio ostile. Senza rinunciare alla denuncia su quanto c’era da cambiare, il suo scopo era edificare una comunità che sapesse coniugare vita spirituale e azione sociale. Il suo stile era la simpatia, l’incontro, l’interesse per tutto quanto riguardava la vita della gente. In quest’ottica, in questa estroversione della comunità ecclesiale che sapeva farsi carico anche dei problemi della società civile, trovano spiegazione le iniziative sociali di padre Puglisi.
Un vero pastore
Nelle intercettazioni in carcere, Salvatore Riina ha dimostrato tutto il suo disprezzo verso il prete di Brancaccio: «Voleva comandare iddu. Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare… il territorio… il campo… la chiesa… Lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva fare iddu nel territorio… tutto voleva fare iddu, cose che non ci credete» (Di Matteo e Palazzolo 2015, 65). L’accusa del capomafia era chiara: Giuseppe Puglisi aveva travalicato i confini entro cui, secondo la mafia, deve muoversi un parroco. In tal modo, Riina giustificava l’uccisione di un religioso, che aveva a cuore tutto quanto riguardasse la vita della sua comunità, non limitandosi alla vita sacramentale dei fedeli. Si preoccupava degli anziani soli in casa, dei carcerati, dell’assenza di una scuola media per i bambini, del controllo mafioso sul mercato immobiliare. «Tutto voleva», dice Totò Riina. Nulla gli era estraneo delle gioie, delle speranze e delle angosce del suo popolo.
L’originalità dell’esperienza pastorale di padre Puglisi è nel suo significato politico, nel senso più profondo del termine, cioè nella sua capacità di umanizzare le relazioni, tessere legami, (ri)costruire comunità. E tutto questo avveniva a partire dai contesti periferici in cui egli era chiamato ad operare, incarnando quanto oggi è proposto con forza dal magistero di Bergoglio, l’esortazione a una Chiesa chiamata a uscire e andare nelle periferie. Leggere l’esperienza di Puglisi alla luce di una tematica cara a papa Francesco non significa proiettare su un’esperienza passata categorie odierne, ma ripensare quella vicenda dentro «la geografia umana del nostro tempo» (Riccardi 2016, 29). Le periferie, nella prospettiva di Bergoglio, non sono semplici luoghi fisici, ma costituiscono l’espressione di quella condizione di marginalità e di isolamento che può coinvolgere ogni essere umano, a livello sia sociale sia esistenziale. Si tratta di un paradigma da comprendere dentro la chiamata missionaria che il Pontefice rivolge a tutti i cristiani a «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Evangelii gaudium, n. 20).
Per usare le parole dello storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, la vicenda spirituale di padre Puglisi ci parla di un problema fondamentale per le comunità ecclesiali oggi: «Far rinascere la Chiesa in periferia: insomma dar luogo a comunità ed esperienze cristiane che germinino in quei luoghi» (Riccardi 2016, 117). I cristiani che vogliono porsi lungo questo cammino, incontreranno la figura mite e appassionata del martire siciliano.
Note
1 Secondo Augusto Cavadi, Puglisi apparterrebbe alla schiera di coloro che «muoiono da estremisti, dopo una vita da moderati» (AA.VV. 2013, 69). In realtà, la vita di Puglisi mostra una sostanziale continuità, soprattutto a partire dagli anni Settanta, nell’amore per i poveri, per il Vangelo e nell’insofferenza verso le ingiustizie.
2 Si veda su questo tema la nota introduttiva al documento redatto da alcuni teologi palermitani, in seguito all’arresto di un frate carmelitano a Palermo per favoreggiamento alla mafia (AA.VV. 1998). Sul tema della religiosità mafiosa esiste ormai una vasta bibliografia. In questa sede citiamo solo la testimonianza di Gaspare Spatuzza, uno degli assassini di Pino Puglisi, divenuto collaboratore di giustizia dopo un travagliato percorso interiore: «Giuseppe Graviano [il mandante del delitto Puglisi n.d.A.], ogni volta che passava davanti a una chiesa si faceva il segno della croce, e anch’io, come quasi tutti gli appartenenti a Cosa nostra. Il valore della religione in Cosa nostra è sproporzionato. Perché ti senti un servitore della legalità e della giustizia, qualcosa tipo templari» (Dino 2016, 96). Per quanto riguarda i rapporti storici tra Chiesa e mafia in Sicilia, cfr Chillura 1989; Ceruso 2007; Naro 2016.
3 Sull’esperienza di via Decollati è interessante anche il racconto di Rosaria Cascio, un’altra amica di Puglisi, in AA.VV. 2013.
4 Relazione tenuta alle assistenti sociali missionarie sull’animazione vocazionale, dattiloscritto, pp. 17, Archivio Giuseppe Puglisi, b. IV, fasc. 2, p. 4.
5 Testimonianza di Francesco Deliziosi raccolta dall’Autore.
6 Relazione e conclusioni al Convegno Parrocchiale sulla «Realtà socio-pastorale della Parrocchia S. Gaetano e delle Parrocchie del quartiere», Palermo, 14-16 ottobre 1992; dattiloscritto, pp. 8, AGP, b. IV, fasc. 14.
Articolo tratto da Aggiornamenti Sociali
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