Aemilia, verso la sentenza
E’ una mafia che arriva da lontano, nel tempo e nello spazio, quella che è protagonista del processo Aemilia. E’ una mafia che è arrivata in Emilia Romagna negli anni Ottanta e che colpisce vicino, nel tempo, nello spazio e nelle relazioni. E il processo che l’ha svelata è un processo che ha messo fine a quelle distanze che in troppi tentavano di mettere tra loro e quella associazione criminale che “no, da noi non c’è”.
Sono passati due anni e mezzo dall’inizio del rito ordinario del Processo Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana. Nel frattempo sono arrivate le sentenze di 1° e 2° grado dei riti abbreviati – la Cassazione si pronuncerà il 24 ottobre – e la sentenza di 1° grado dei riti abbreviati di Aemilia Bis, si è aperta l’inchiesta Aemilia Ter, ci sono state le operazioni Aemilia 1992 e Reticolo. Diramazioni che si aggiungono agli altri due processi paralleli che hanno preso il via insieme ad Aemilia dopo il 28 gennaio 2015: Pesci a Mantova e Kyterion a Crotone.
Il primo grado del rito ordinario, che a marzo di quest’anno si è ulteriormente sdoppiato con l’aggiunta di un abbreviato, si concluderà a fine ottobre, quando è prevista la sentenza. Anzi, le sentenze: saranno pronunciate quelle di questi due filoni che negli ultimi sette mesi sono proseguiti parallelamente.
I NUMERI
Gli imputati iniziali complessivi erano 239, poi divisi tra riti abbreviati (71), patteggiamenti (19), proscioglimenti (2). 5 dei 6 uomini ritenuti dalla Dda – e dalle prime sentenze – a capo della cosca di ‘ndrangheta con epicentro a Reggio Emilia, hanno scelto il rito abbreviato: non hanno quindi voluto contestare nella fase dibattimentale del rito ordinario l’accusa. I 5 uomini sono Nicolino Sarcone, Alfonso Diletto, Antonio Gualtieri, Francesco Lamanna, Romolo Villirillo, tutti condannati dai 12 ai 15 anni dalla sentenza di appello.
Sono stati rinviati a giudizio, sono quindi processati secondo il rito ordinario, 149 imputati. Di questi, 34 sono processati, dal 13 marzo 2018, secondo il nuovo rito abbreviato.
I capi d’imputazione dell’operazione Aemilia sono 189, ma i più inquietanti – oltre ad associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, usure, furti, incendi, commercio di sostanze stupefacenti – sono quelli che riguardano l’economia emiliano-romagnola: come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche, in particolare nel settore edilizio, movimento terra, smaltimento rifiuti, ristorazione, gestione cave, nei lavori seguenti il sisma in Emilia del 2012; acquisire appalti pubblici e privati”.
Lo ha spiegato Enzo Ciconte, ascoltato dai Giudici della Corte in una delle udienze: la ricchezza dell’Emilia Romagna e del Nord ha tranquillizzato la maggior parte della popolazione che per tanto tempo si è sentita immune da un radicamento vero e proprio, quando è proprio quella ricchezza che ha fatto sì che le mafie si radicassero e crescessero.
PERCHE’ IL RITO ORDINARIO SI E’ SDOPPIATO?
Nell’udienza dell’8 febbraio scorso, il Pubblico Ministero Beatrice Ronchi ha depositato dichiarazioni e precisazioni riguardo all’accusa di associazione mafiosa. A questo capo d’imputazione, il più grave, se ne sono aggiunti altri che riguardano in particolare il settore edile: riciclaggio, ricettazioni, reimpiego di denaro di provenienza delittuosa in attività illecite. Dal carcere, inoltre, sarebbero arrivate minacce e intimidazioni a coloro che hanno testimoniato e gli imputati avrebbero cercato di inquinare le prove.
Questo ha portato al fatto che per tutti gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, con l’eccezione dei due collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Salvatore Muto, il termine dei fatti contestati all’interno del processo non si ferma al 28 gennaio 2015 – giorno in cui si è svolta l’operazione Aemilia – ma arriva all’8 febbraio 2018: l’attività delittuosa di questi imputati non si sarebbe, quindi, mai fermata.
La modifica dei capi d’accusa riguarda 34 imputati per i quali viene, appunto, considerato un arco temporale di reato più lungo. Come ha scritto il giornalista Paolo Bonacini, “la procedura penale riserva loro il diritto, in caso di contestazione di “fatti diversi”, di poter accedere appunto al rito abbreviato”. Tra queste 34 persone ci sono i più importanti imputati del processo: Gianluigi Sarcone, Sergio Bolognino, Salvatore Muto, Eugenio Sergio, Giuseppe e Palmo Vertinelli, Pasquale Riillo, Giuseppe Iaquinta, e Michele Bolognino, il sesto uomo accusato di essere a capo della ‘ndrangheta emiliana.
La strategia criminale è stata definita dall’accusa, “un inganno, una strategia della cosca che cerca di far passare sotto le spoglie del cutrese lavoratore in Emilia per qualcosa di diversa, che altro non è che ‘ndrangheta. Strategia utilizzata per espandersi e per difendersi dopo l’operazione Aemilia”.
“LA MAFIA SILENTE NON E’ QUELLA CHE NON INTIMIDISCE”
La strategia della consorteria mafiosa voleva colpire anche i giornalisti che raccontavano il processo e, quindi, davano fastidio a una associazione criminale che vorrebbe essere rappresentata come una associazione imprenditoriale qualunque.
Tra le varie indicazioni decise all’interno del carcere, c’erano, quindi, anche quelle per indebolire la stampa: il 17 gennaio 2017 Michele Bolognino chiedeva, a nome di tutti gli imputati, che il processo procedesse a porte chiuse, con l’esclusione di tutti i giornalisti dall’aula. Secondo gli imputati, i giornalisti avrebbero fatto un linciaggio mediatico nei loro confronti distorcendo le notizie: “ogni articolo pubblicato – è scritto nella lettera letta da Bolognino – è sempre in chiave accusatoria anche quando esame e contro-esame hanno dato un quadro diverso”, e anche le scolaresche le associazioni che partecipano al processo lo fanno “solo per ascoltare la parte accusatoria e vanno via quando c’è il contro-esame”.
Alla “inquietante richiesta” – come viene definita da Ronchi – i giudici diedero ordine di rigetto, proprio nel giorno in cui davanti al Tribunale era arrivata la Mehari di Giancarlo Siani, in una delle tante tappe del “Viaggio legale”. Il giudice Caruso affermò che “la pubblicità dell’udienza ‘a pena di nullità’ è anzitutto garanzia fondamentale degli imputati”, ricordando poi come la libertà di informazione presente nell’articolo 21 della Costituzione sia “pietra angolare del sistema democratico”.
La questione emerge in due forme diverse anche nel primo rito abbreviato: in appello è stato condannato Domenico Mesiano, ex autista del Questore di Reggio Emilia, per concorso esterno in associazione mafiosa e per le minacce a Sabrina Pignedoli, giornalista della redazione reggiana del Resto del Carlino, intimata di smettere “di occuparsi con la sua attività giornalistica dei Muto perché costoro non gradivano più che lo facesse”.
Tra le condanne, poi, c’è anche quella a Marco Gibertini, condannato per concorso esterno per avere dato mediaticamente voce alle ragioni degli ‘ndranghetisti: il ‘giornalista’, che aveva un programma indipendente su TeleReggio, inaugurò “la pratica della fruizione del circuito della informazione da parte del crimine mafioso” oltre ad avere indicato al clan ‘ndranghetistico “i soggetti nell’interesse dei quali effettuare il recupero dei crediti”.
COSA C’ENTRA IAQUINTA?
Sono tanti i personaggi che si sono messi a disposizione della cosca emiliana, molti dei quali già condannati nell’appello dei riti abbreviati per concorso esterno in associazione mafiosa. Insieme a questi l’associazione necessitava – come ha affermato Beatrice Ronchi – di “imprenditori spendibili all’interno del sodalizio, per creare agganci con la società civile”. Tra questi, secondo l’accusa, c’è anche Giuseppe Iaquinta, spendibilissimo a livello pubblico in quanto padre del calciatore Vincenzo. Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Valerio, Iaquinta, oltre ad avere rapporti quotidiani con gli uomini del clan, avrebbe reperito ditte disponibili alla falsa fatturazione, nodo centrale degli affari degli ‘ndranghetisti.
Ma le vicende di ‘ndrangheta si estendono a tutta la famiglia: secondo il collaboratore Salvatore Muto, la ‘ndrangheta sarebbe intervenuta nel 2007 e nel 2011 per far giocare Vincenzo Iaquinta, che non veniva più schierato dagli allenatori, mentre era nelle squadre, rispettivamente, dell’Udinese e della Juventus. In quest’ultimo caso probabilmente il tentativo di condizionamento non andò a buon fine: Vincenzo Iaquinta, infatti, fu prima ceduto al Cesena e poi si ritirò.
Il calciatore, per il quale l’accusa ha chiesto una pena di 6 anni, è accusato anche di aver permesso alla consorteria di detenere armi: durante l’Operazione Aemilia in casa del calciatore furono trovate diverse armi, che sarebbero state utilizzate dagli uomini di ‘ndrangheta. Una strategia non nuova all’associazione mafiosa, che detiene armi con l’aiuto di parenti e amici.
1712 ANNI
Il 22 maggio 2018 in aula c’era un silenzio che non c’era probabilmente mai stato, mentre il Pubblico Ministero Marco Mescolini leggeva le richieste di pena: l’accusa ha chiesto condanne per un totale di 1712 anni di carcere. La richiesta era stata anticipata da una lunga requisitoria in cui Mescolini aveva affermato che basterebbero le dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia – Antonio Valerio, Salvatore Muto, Giuseppe Giglio – per condannare gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, grazie a tantissimi dati “che fanno pendere la bilancia verso l’impossibilità di giungere a conclusioni diverse da quelle che noi abbiamo indicato”.
Ora sono in programma le ultime cinque udienze – il 13, il 18 e il 20 settembre e il 9 e l’11 ottobre – con le repliche delle parti civili, le controrepliche della difesa e le dichiarazioni spontanee degli imputati che vorranno parlare. In ogni modo andrà, a fine ottobre arriverà la sentenza di primo grado di un processo storico.
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