Trapani, un film del 1949 e le immagini di oggi
Oggi come ieri c’è chi pensa che la lotta alla mafia non appartiene alla società ma solo a magistrati e investigatori. A Castelvetrano i cortei contro le istituzioni, a Castellammare del Golfo pregiudicati e confiscati ammessi al tavolo delle riforme giudiziarie.
C’è un film del 1949, il titolo è “I fuorilegge”. È il racconto di quello che accadeva in un paesino della Sicilia del dopoguerra, dove gli americani andando via avevano consegnato il potere anche a dei mafiosi, chiamati allora “galantuomini”. Uno spaccato incredibile.
Se fosse stato girato nei nostri giorni quella pellicola verrebbe etichettata come se fosse un “docu-film” di quelli dei quali oggi sentiamo tanto parlare, come l’aspetto moderno dell’informazione giornalistica. La trama de “I fuorilegge” propone un avvocato colluso con i suoi clienti mafiosi, un vero e proprio burattinaio capace di decidere della morte altrui, che ripete spesso “quello è una candela che deve essere spenta”. Un boss ricercato e nascosto nella montagna sopra quel paese, ricercato dai carabinieri che hanno contro la cittadinanza perché soggiogata sopratutto dall’avvocato, il cui volto sgomento, davanti al cadavere del boss, chiude il film mentre attorno a lui si fa spazio, il paese lo allontana e i carabinieri sono prossimi ad arrestarlo.
Ad un certo punto della pellicola c’è una scena in caserma dove il capitano aveva convocato due donne, madre e figlia. La ragazza è l’amante del boss latitante. Il capitano insiste perché lei dica dove si nasconda l’amante. Irrompe la madre dicendo alla figlia di non parlare, “Cosimo (il nome del ricercato, ndr) lo devono prendere loro: nel nostro paese non si fa la spia, quando lo prenderanno noi diremmo che è giusto”.
Ecco, l’impressione che abbiamo è che questo paese esiste davvero in Sicilia. Castelvetrano? La città del latitante Matteo Messina Denaro? Può essere. Intanto qui sabato scorso hanno sfilato cittadini che si sono resi di colpo irrequieti per le parole non dette dai mafiosi ma dai rappresentanti dello Stato, incaponiti a restituire democrazia e libertà a questa terra.
Si sono presentati con l’hastag “
Lo spaccato è da lasciare increduli, ma in questa terra trapanese accade ancora questo, come in quel 1949. La giornata di sabato scorso in provincia di Trapani non è stata segnata solo dal corteo ambiguo ed equivoco di Castelvetrano, dove certamente c’era gente in buona fede ma tanti erano in malafede, ma anche da un altro convegno, dalla parte opposta, a Castellammare del Golfo. Qui i radicali hanno proposto un tema che in Sicilia portano in giro da qualche tempo, ossia la riforma della norma sulla confisca dei beni ai mafiosi, sulle interdittive e sulle misure di prevenzione. Stavolta i radicali, che pure si sono fatti ammirare ed apprezzare per certe battaglie, potebbero aver esagerato, portando al dibattito dedicato ad un tema importante, pregiudicati come Peppe Fontana, commerciante di Castelvetrano, soggetti raggiunti da confisca come l’imprenditore Pietro Funaro, ex presidente del sindacato degli imprenditori edili, e altri ancora sotto procedimento come l’imprenditore edile Salvatore Candela.
Accomunati a chi ha subito torti dalla magistratura, come gli ex giovani di Alcamo accusati della strage compiuta a fine anni ’70 dentro una casermetta dei carabinieri, ne furono uccisi due, e che di recente si sono visti riabilitati con tanto di assoluzione. Storie che non possono stare insieme. E sopratutto è incredibile che a conclusione del convegno ci sia stato chi ha proposto di organizzare una marcia dei preposti alle confische e dei confiscati proprio a Trapani.
Il leitmotiv andato in scena è quello di tante altre volte, la mafia e l’antimafia sono stati messi sullo stesso piano. Una antimafia che fa più danni della mafia, abbiamo sentito dire. L’antimafia che ha fatto danni è stata colpita e viene colpita quando sbaglia o finge, e questa cosa fa notizia; meno notizia in questi contesti continuano a fare le malefatte mafiose, anch’esse colpite e non di rado. C’è una terra, quella trapanese, che continua ad essere dominata dal chiaro oscuro, dove si continua a pensare che la mafia è quella che uccide e fa stragi, e non è quella che invece è sempre stata, una mafia capace a diventare pubblica istituzione, una mafia che è capace a diventare essa stesso Stato. Una mafia che è capace di far trasferire i personaggi a lei scomodi, quelli che lavorano seriamente nei Palazzi di Giustizia, tra le forze dell’ordine.
Il “Giorno della Civetta” ci consegnò la storia del capitano Bellodi trasferito dopo avere messo le mani sul capo mafia. Dobbiamo interrogarci che davvero la stagione tremenda toccata a tanti Bellodi sia davvero terminata. E siamo tornati ai tempi in cui la mafia attaccava la mafia, i cittadini devono non sapere. Ieri sparava, oggi usa le querele temerarie.
Ma su una cosa bisogna essere chiari. Oggi non abbiamo una mafia diversa dal passato. Oggi si parla tanto di colletti bianchi affiliati a Cosa nostra, come se fosse questa una novità. O si parla di una mafia che si è inabissata. La storia della mafia, a cominciare proprio da quella del dopoguerra è fatta da capi mafia che erano medici o avvocati, sindaci o dirigenti di banca. Melchiorre Allegra, primo vero pentito di Castelvetrano, che raccontò non creduto la mafia come decine di anni dopo l’avrebbe raccontata Buscetta, era un medico, come era un medico il capo mafia di Corleone Michele Navarra, così per fare due nomi. Ma potremmo parlare di tanti altri, come primari ospedalieri, grandi immobiliaristi, baroni e banchieri, deputati e senatori, sindaci o assessori.
Le “coppole e le lupare” sono molto meno di chi serve la mafia girando in grisaglia e con belle e potenti auto. La mafia e quella trapanese è stata sempre sommersa, si è fatta vedere con delitti e stragi quando le armi accompagnarono l’avvento dei corleonesi di Riina. Nessuna novità, da questo punto di vista. La novità sta altrove. Sta nei veri nuovi mafiosi. Che non sono “punciuti” ma sono semmai e sopratutto imprenditori che svolgono il lavoro di sviluppatori e facilitatori nel rapporto tra le grandi imprese e la mafia. E sono quelli che più di altri ce l’hanno con l’antimafia. Li possiamo riconoscere in questo modo, dal loro vociare contro l’antimafia. Mai contro Cosa nostra o le mafie in genere.
La mafia di oggi è quella di sempre, intelligente e capace di sfruttare un “capitale” fatto non solo di denaro, ma anche di cultura mafiosa. Capace di vivere o convivere con certi sistemi, quelli che magari riescono ad arrivare fin dietro la porta di un magistrato che indaga, origliando usando cimici e microspie, violando una autovettura, blindata, e ferma in un parcheggio che dovrebbe essere protetto, come è accaduto ad un magistrato trapanese, il pm Andrea Tarondo. Mafia e massoneria non è un binomio di oggi, è cosa di sempre, nella terra trapanese dove a governare continua ad essere la mafia borghese e non quella delle campagne. E il connubio mafia e massoneria emerge da ogni indagine, da quelle sui reati nella pubblica amministrazione a quelle sui grandi appalti e investimenti, le speculazioni edilizie e le energie alternative.
A proposito di affari. In pochi ne parlano ma l’ultimo vero business mafioso è quello dei centri commerciali, ma talvolta i “galantuomini” di oggi riescono finanche a far andare in archivio certe indagini. Certi “ventri molli” nei Tribunali continuano ad esistere. Le grandi vie del riciclaggio in assenza di “grandi eventi” o “grandi appalti” oggi scorrono tra maxi centri commerciali. E grandi spazi e disponibilità sono proprio in questi angoli di Sicilia tra Palermo e Trapani, dove c’è chi si batte di più contro l’antimafia. Guarda caso!
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