Palermo, “Io vado fiero delle mie denunce contro il racket”
”Proprio per l’importanza che ha il racket del pizzo la denuncia delle vittime, che consente di disarticolare la rete delle estorsioni, è ancora più importante: senza i soldi delle estorsioni il meccanismo di solidarietà dei boss verso le famiglie dei carcerati salta e il meccanismo va in tilt”, queste le parole dell’allora Procuratore Capo della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, nel 2011, Francesco Messineo. Le sue dichiarazioni riguardavano un’operazione denominata “Hybris” messa a punto dai carabinieri del Comando Provinciale di Palermo insieme alla Dda che portò all’arresto di 35 persone per associazione mafiosa finalizzata alle estorsioni, alle rapine e al traffico di droga. Nonostante Messineo avesse in quell’occasione posto l’accento sul numero sempre ridotto di denunce pervenute, tra gli imprenditori che si erano fatti avanti permettendo loro di decapitare i mandamenti di Pagliarelli e Porta Nuova, c’era un ragazzo di ventisette anni il cui nome era ed è Daniele Ventura.
La gioventù nel ricordo di Falcone e Borsellino
Daniele nasce a Palermo nel quartiere Brancaccio, che dà anche il nome al mandamento di Cosa nostra, il dodicesimo quartiere di Palermo dove nel 1993 la mafia nel nome dei fratelli Graviano uccise Don Pino Puglisi. Brancaccio è un quartiere di delinquenza, le occasioni di spaccio sono davanti casa ma Daniele e i suoi fratelli, cresciuti nella legalità di una famiglia modesta che insegna loro sani valori, non cede al tranello della criminalità. Il contagio di quel male terreno che nel 1992 ucciderà Giovanni Falcone, “quel giudice dalla faccia pulita e simpatica” come scrive Daniele nel suo libro, e poi Paolo Borsellino, segnerà per sempre la sua vita. “Fui pervaso da sgomento e paura, e dal pensiero che quelle immagini che avevo già visto il 23 maggio mi stavano entrando nel cuore, e che solo se la mia Palermo si fosse ribellata in massa quei cattivi avrebbero potuto essere combattuti realmente, mentre Giovanni e Paolo si erano trovati da soli a combatterli”, scrive. Daniele Ventura nel 1992 ha solo otto anni ma ha già scelto da che parte stare.
Quel grande sogno che Cosa nostra ha provato a distruggere
Nel 2010 dopo gli studi in ragioneria e dopo aver provato ad entrare all’università, decide di aprire un bar, tra il porto di Palermo e il Teatro Politeama, un’attività che nascerà con il nome di New Paradise perché era del suo sogno che si trattava. Aveva entusiasmo da vendere ed era fiducioso di riuscire nell’intento, nessuno avrebbe potuto fermarlo. O almeno così credeva, fino al momento in cui degli uomini vennero a chiedergli un compenso che sta a metà tra protezione e intimidazione: il pizzo. La prima volta acconsentì, ma poi gli tornarono in mente Falcone e Borsellino dilaniati dalle bombe per aver fatto solo e unicamente il loro dovere e grazie al supporto di un cugino anche lui stanco di subire scelse di denunciare. Si recarono alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo dove un carabiniere gli disse di quanta importanza fosse quel gesto, un’azione che aiuterà a smantellare quel mandamento mafioso nell’operazione “Hybris”.
Una volta che il suo racconto fu verbalizzato, gli inquirenti gli fecero vedere alcune fotografie, proprio come si usa nei film polizieschi. Tra quelle c’erano anche tre volti familiari.
Da Porta Nuova il volto di Francesco Chiarello che avrebbe cominciato a collaborare con la giustizia tre anni dopo, uno di quelli che avrebbe fatto scoprire il box dietro al tribunale dove hanno ucciso l’avvocato Enzo Fragalà e sempre lui che avrebbe fornito agli inquirenti il libro mastro con i nomi di chi pagava il pizzo. Poi c’era il volto del boss di Porta Nuova Gaspare Parisi e il giovane volto di Nunzio La Torre, all’epoca poco più che ventenne.
Dopo le denunce, i problemi che gli imprenditori devono affrontare sono altri.
Con la conclusione della retata contro le cosche, diversamente da quanto si potrebbe pensare, l’incubo per gli imprenditori che scelgono di denunciare non finisce.
Daniele Ventura che, a ventisette anni si era ritrovato a combattere Cosa nostra, in quel momento benché supportato dall’associazione Addiopizzo, era solo, scansato come la peste dalla gente che per paura si defilava facendo pian piano fallire la sua attività. “Avevo un catering per una scuola, fornivo pranzi ai bambini, e una volta che mi sono trovato a dover comprare cose di qualità più scadente ho preferito lasciare questo catering perché non mi sembrava giusto dover dare a dei bambini qualcosa di qualità inferiore, a dei piccolini non me la sarei mai sentita, non potevo permettere che dei bambini pagassero uno scotto, non era assolutamente giusto quindi per correttezza ho dovuto lasciare” mi dice quando lo raggiungo al telefono.
Forse la cosa più complicata da capire per chi non vive direttamente questa realtà è come sia possibile che nel 2018 nonostante tutte le cose che sono capitate, le persone non comprendano che non è conveniente delinquere e che anzi la soluzione sia proprio quella di denunciare. Daniele acconsente e aggiunge: “Il problema è proprio quello, non so perché o forse è proprio per questi deboli segnali che dà lo Stato… io non sono l’unico caso, se uno va a leggere ci sono centinaia di migliaia di imprenditori che dopo le denunce si sono ritrovati nei guai. Lo Stato non ti tutela né ti aiuta. Se io dovessi consigliare a una persona di denunciare poi so che si troverebbe in un gran casino: la gente non ci va più, lui deve chiudere, non lavora più, si trova pieno di debiti, è chiaro che chiunque mi dice ‘ma che cosa mi hai fatto fare?!’ perché nella zona non hanno denunciato tutti e quelli che non hanno denunciato e continuavano a pagare il pizzo sono ancora aperti, quindi è chiaro che poi ti salgono dei dubbi”.
Nonostante l’angoscia Daniele non si arrende, anche se i commercianti che lo conoscono continuano a venirgli contro. Prima qualcuno gli danneggiò i catenacci delle saracinesche, poi gli rubarono le attrezzatura più costose, infine non potendo più pagare l’affitto e la luce, fu costretto a chiudere. Un muro contro muro difficile da rompere dato che tutti sapevano ma si comportavano come se la mafia non esistesse. Poi si sommarono altri debiti. Dopo il processo, ad esempio, la Consap, Concessionaria per i Servizi Assicurativi Pubblici del Ministero dell’Economia che si occupa della gestione dei fondi sequestrati alla mafia, non gli riconobbe che i prestiti concessi a nome di sua moglie servissero per le spese del locale, nonostante avesse tentato di dimostrarne l’effettività fornendo bonifici e fatture. Solo dopo l’attenzione mediatica e i servizi di Palermo Today e Striscia La Notizia il problema sembrò risolto, un problema di disorganizzazione che però mina il senso di giustizia delle persone per bene.
La speranza è viva nonostante lo Stato ti lasci solo
Secondo te cosa dovrebbe fare lo Stato? Gli chiedo. “Lo Stato dovrebbe essere al tuo fianco. Metterci la faccia, decidere da che parte stare. Il problema è che quando denunci loro ti dicono ‘non ti preoccupare, lo Stato ti è vicino’ ma materialmente ti sono vicine solo le forze dell’ordine”. Come al solito la domanda resta invariata, dov’è lo Stato? Perché il Presidente della Regione Siciliana Sebastiano Musumeci prima gli ha detto di scrivergli una lettera e poi non si è più fatto vivo? Quanto può essere serio sottovalutare un rischio, descritto da Ventura come “una situazione gravissima” quando poi la segreteria di Mattarella risponde che “il Presidente non ha tempo di incontrarlo”?
Al riscatto Daniele ci crede ed è per questo che ha voluto scrivere il libro “Cosa nostra non è cosa mia” edito da La Zisa. Non senza speranza mi dice che qualcosa si sta muovendo, “l’On. Cancelleri [Giovanni Carlo, Vice Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, ndr.] mi ha proposto di scrivere una legge da portare a Roma in commissione antimafia con i problemi di chi poi realmente denuncia la mafia e si scontra con tutte queste problematiche”. E poi lui ne è convinto: “Io vado fiero delle mie denunce e nonostante tutto quello che hanno comportato le rifarei altre mille volte, perché sono nato con le stragi di Falcone e Borsellino e c’ho i ricordi vivissimi quindi le mie denunce le rifarei”.
La seconda chance
Da circa un mese, dopo un periodo di disoccupazione, collabora con un’altra vittima di mafia. Un’assurdità per lui che ad aiutarlo sia un imprenditore privato e non lo Stato, ma non si tira indietro. Gianluca Maria Calì è l’unico che gli è venuto incontro, forse perché comprende la situazione meglio degli altri. Gli è stato dato in gestione un salone che era stato sequestrato dalla polizia, una sorta di baratto con l’attività che ha dovuto anche lui chiudere dopo che aveva denunciato i suoi estorsori. Il messaggio che Calì vuole sottolineare è stato già pubblicato sulla stampa locale: “Io non pago”.
Eppure, come mi dice Daniele “finora non abbiamo venduto niente ma è da poco che siamo qui, siamo entrambi conosciuti e non c’è molta clientela. Anche qui stiamo riscontrando dei problemi: gente che passa e ci fa il dito medio, dice parolacce, perché ormai ci conoscono e sanno che noi non paghiamo e ci ribelliamo, tra virgolette, ci fanno capire che non siamo graditi ma noi non abbassiamo la testa e continuiamo ad andare avanti”.
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