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Il giornalismo libero ha cambiato l’Italia

Maria Grazia Mazzola* il . L'analisi

Image by © Arman Zhenikeyev/Corbis

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Ho scelto il giornalismo civile, subito dopo la laurea in Scienze Politiche, in una Palermo insanguinata dagli omicidi di mafia. Studentessa, ho risposto all’appello del generale Carlo Alberto dalla Chiesa appena arrivato in città ad impegnarmi socialmente con quella parte sincera di Palermo.

Cresciuta in una famiglia dove il bene pubblico era ed è una priorità, con l’esempio dell’amico Pio La Torre, cercare la verità, pubblicarla, per me è diventato un dovere, un’urgenza, una chiamata alle armi nella città delle stragi. Crescere nel buio degli spari ti rende negli anni sensibile alla necessità della luce: quell’impellenza di fare chiarezza che ti porta a scavare, a non lasciarti suggestionare dalle apparenze ne’ a farti fermare dalla minaccia come fosse scontato e normale proseguire.

Ho conosciuto il magistrato Paolo Borsellino. Ho ascoltato direttamente Giovanni Falcone, ho incontrato personalmente Francesca Morvillo. Li ho incontrati dopo, ancora, ma con le stragi. Lì, a Capaci, ero inviata per Samarcanda.

Sono testimone.

Essere cronista vuol dire per me testimoniare ciò che vedo tentando di non tralasciare nulla, trasmettere ai cittadini i fatti – ma anche quella polvere di un’autostrada fatta saltare in aria – con le sole testimonianze dei tre poliziotti della scorta sopravvissuti alla strage. Capaci si è conficcata nel mio cuore come un paletto: gli occhi di Francesca Morvillo prima e anni dopo le sue scarpe sull’asfalto esploso sotto i nostri occhi.

Da quei giorni passando alle centinaia di inchieste di mafia in tanti anni – anche un documento unico nei reparti degli stragisti condannati al 41 bis, dove sono stata minacciata – fino a Bari, nel febbraio scorso.

Di minacce, pedinamenti e armi puntate la mia storia professionale è piena. Ma quel pugno, e non uno schiaffo, datomi in in via Petrelli a Bari il 9 febbraio, quell’edema che non si è ancora assorbito, ha significato qualcos’altro.

Sono anni che, dopo gli omicidi dei nostri colleghi negli anni più bui, le mafie hanno rialzato il tiro.

Il giornalismo libero ha cambiato un pezzo di Italia, ma un’altra rimane ancora al buio ed è urgente che tutti insieme portiamo fari che possano mettere a nudo ciò che di losco e di impenetrabile rimane ancora radicato.

Molti giornalisti hanno fatto e continuano a fare domande, indagano e vanno nelle “periferie” più buie del nostro Paese dove in genere non entra nessuno. Questo è il punto.

In via Petrelli, quartier generale del clan Caldarola-Strisciuglio, io ponevo domande per strada su quel clan potentissimo. Sono convinta di avere disturbato i traffici quel pomeriggio: la moglie del boss, Monica Laera, è anche lei un boss condannata per associazione mafiosa in Cassazione nel 2004. Pericolosa socialmente, è libera. Mi ha aggredita mentre ponevo domande sui figli: uno condannato per omicidio, il più piccolo, condanna sospesa per rapina da minorenne, poi un procedimento penale per stupro; uno, invece, libero. Laera mi ha urlato: “Ma che vuoi sapere, ah ? che storia vuoi sapere ?”

Mi ha minacciata davanti alla polizia – che ho chiamato subito- e lo ha fatto anche la sua consuocera, Angela Ladisa, moglie di un altro boss, Pino Mercante, pluricondannato. Sui fatti sta indagando la Dda di Bari.

Questa mafiosa mi ha sferrato un pugno – che mi è costato 40 giorni di prognosi e ho rischiato di rimanere sorda – per un’operazione militare e non per una bega, come ha tentato con i suoi legali di dire per disinformare. Una lezione esemplare per tutti i giornalisti, come Ostia. L’aggressione al collega Piervincenzi da parte di Spada ha generato un effetto emulativo.

Con Speciale Tg1 – il mio ringraziamento alla vicedirettrice Maria Luisa Busi per la fiducia e la vicinanza in questi mesi difficili – stiamo informando da anni sul programma dello Stato “Liberi di scegliere”. Il programma prevede che ai boss venga revocata la responsabilità genitoriale sui figli minori per far in modo che questi ultimi possano crescere con famiglie affidatarie, formate dall’associazione Libera. È doveroso ringraziare allora l’associazione, i suoi volontari, e il presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. C’è già un protocollo nazionale firmato. Le nuove famiglie e le vecchie famiglie mafiose. Punto centrale.

Ci vuole più elasticità con i palinsesti, troppo ingessati: abbiamo bisogno di tanta informazione e di approfondimento, di inchieste in prima serata – la mafia raccontata bene fa ascolto, interessa- perché i cittadini ce lo chiedono e si indignano quando andiamo purtroppo in onda con gli speciali all’una di notte…

*Inviata di “Speciale Tg1”, intervento al convegno  “La Rai con i giornalisti minacciati dalla mafia”, Roma 16 maggio 2018

 

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