Troppi i cronisti minacciati, l’Europa si svegli
L’ultima classifica di Reporter Senza Frontiere colloca l’Italia al 46simo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa. Come si spiega una dato ancora così lontano da quelli che dovrebbero essere standard consolidati in occidente?
“La questione della libertà di stampa in Italia risente di diversi fattori. A partire dalla mancanza di editori puri, cioè di soggetti che facciano dell’informazione il loro core business. Nascono così tante situazioni di piccoli e grandi conflitti d’interesse, sia a livello nazionale che locale, che limitano la libertà dei giornalisti. I quali finiscono con l’essere vittime di un’autocensura. Faccio un esempio: se il mio editore ha grossi interessi nel mondo della ristorazione, difficilmente farò un’inchiesta sui locali che abbiano nella loro compagine societaria soggetti legati a organizzazioni criminali. Questo avviene in Italia. Pensiamo ai conflitti d’interesse in ambito politico ma anche alla stessa Rai, di fatto lontana da modelli di governance in grado di assicurare libertà e indipendenza. C’è poi un altro aspetto di cui non si parla abbastanza..”
Quale?
“In Italia si legge poco. Perché i giornalisti possano essere veramente liberi dovrebbero contare su un numero ampio di lettori, non ristretto. Quindi sulla possibilità di mettere in campo idee e pensieri diversi. Infine, a condizionare la libertà degli operatori del settore ci sono elementi pesanti, quali la presenza della criminalità organizzata e la corruzione, a livello nazionale e locale. I media riflettono la situazione stagnante nella quale si trova il Paese”.
La mancanza di editori puri è anche la conseguenza della crisi del settore che ha comportato operazioni di salvataggio dei giornali mediante l’ingresso nei cda di grossi gruppi imprenditoriali e bancari. E’ possibile conciliare la necessità di salvaguardare tante realtà editoriali con l’indipendenza delle stesse?
“Rispondere non è facile. Servirebbero, innanzitutto, strumenti legislativi che separino le governace dei grandi gruppi editoriali da altri tipi di interessi. Ci sono macroquestioni su cui lo Stato è chiamato a intervenire. Anche perché in Italia il settore è regolato da alcune norme molto vecchie. Andrebbe poi fatta un’alfabetizzazione dalla base, chiamando in causa la scuola e i rapporti dei media con il sistema della formazione. Ma anche pensando a incentivi di carattere culturale ed editoriale in grado di forgiare un lettore diverso, più consapevole. Mi rendo conto che si tratta di un percorso lungo, ma va fatto. Specie in una fase, come quella attuale, dominata dai nuovi media, sui quali il mainstream viaggia con regole proprie finendo col tagliare fuori tante notizie. Nel nostro piccolo, come LiberaInformazione, cerchiamo di far capire che il diritto a informare è anche il diritto a essere informati e questo lo si può ottenere solo attraverso la crescita non solo di chi offre l’informazione ma anche di chi la riceve”.
Rsf, a proposito dell’Italia, parla ancora una volta di minacce e violenze subite dai giornalisti nelle regioni ad alta densità mafiosa. Come vive un cronista che, col suo lavoro, denuncia quotidianamente le malefatte delle organizzazioni criminali?
“Rischiando. E non parlo solo dei 18/19 che (secondo il Viminale) sono costretti a girare sotto scorta. Ma anche dei tanti, conosciuti o poco conosciuti, che non hanno questa ribalta mediatica risultando più esposti. Torna in mente la vicenda di Giancarlo Siani (giovane giornalista napoletano ucciso dalla camorra nel 1985 ndr) di cui non si sapeva nulla fino a quando non è stato ammazzato. Perché era precario, faceva servizi dalla provincia di Napoli e aveva fatto le sostituzioni estive al Mattino. Non vorrei trovarmi di fronte a un altro Giancarlo Siani. Di uno che non si sa niente fino a quando non viene ucciso, perché non ha avuto la possibilità di andare in televisione quando ha subito minacce o perché non siamo stati in grado di ascoltare le sue richieste d’aiuto. E cioè la richiesta di pubblicare, per pochi euro, un’articolo di denuncia o un’inchiesta”.
Negli scorsi mesi a perdere la vita sono stati due reporter investigativi: la maltese Daphne Caruana Galizia e lo slovacco Jan Kuciak. L’Europarlamento ha chiesto agli Stati membri di intervenire per proteggere la categoria. Cosa serve concretamente?
“Sicuramente una maggiore consapevolezza da parte della politica e delle forze dell’ordine di fronte a situazioni di pericolo. Non mi pare che a Malta questo sia avvenuto e nemmeno dalla Slovacchia arrivano segnali rassicuranti sull’individuazione di complici e responsabili. Quando si tocca una giornalista i piani si sovrappongono. Non basta fermarsi al livello di chi ha premuto il grilletto o ha fatto detonare la bomba. Certo, l’ultimo anello, quello che materialmente uccide, è giocoforza criminale. Ma gli altri anelli, che si stringono mano a mano attorno al collo del collega messo sotto tiro, sono legati ad altri piani. Serve sicuramente una presa di coscienza, a livello europeo, del fatto che la mafia non è più solo un fenomeno italiano, ma anche continentale, globale. Ma Bruxelles mi sembra ancora lontana da questa consapevolezza. Basti pensare che, come Libera, abbiamo sudato sette camicie per far approvare a livello comunitario una direttiva che prevedesse il sequestro e la confisca dei proventi delle attività criminali. E questo perché numerosi Paesi europei non riconoscono un reato di tipo associativo sul modello dell’articolo 416 bis italiano. Una maggiore tutela dei giornalisti passa solo attraverso una piena presa di coscienza del fenomeno”.
In Italia la diffamazione a mezzo stampa è ancora punita con il carcere, nonostante la Corte di Strasburgo abbia a più riprese paragonato la previsione di una pena così severa a una sorta di censura preventiva. Come si bilancia la libertà di stampa con quei diritti che rischiano di essere messi in discussione da un articolo scritto in modo superficiale?
“Abbiamo parlato dei giornalisti minacciati e uccisi dalle mafie ma non possiamo dimenticare i tanti colleghi che fanno male il proprio lavoro. E che magari sono la causa di dissesti finanziari, guai in famiglia, perché una notizia non è approfondita. Detto ciò il problema delle cosiddette querele temerarie è reale. Il rischio è quello di trovarsi davanti al giudice anni dopo la pubblicazione del pezzo, in condizioni di oggettiva difficoltà. E che poi il tutto si concluda con un nulla di fatto e senza conseguenze per chi ha sporto una querela priva di fondamento. Non è un caso che tanto l’Ordine nazionale quanto la Fnsi abbiano chiesto di rivedere queste norme, compresa la previsione del carcere, una spada di Damocle poco funzionale al diritto di informazione ma molto all’autocensura”.
Nell’epoca delle fake news anche la stampa paga dazio… Come possiamo difenderci noi operatori della comunicazione?
“Attraverso l’approfondimento. Non limitandoci a condivisioni finalizzate a ottenere più like o follower. Roberto Morrione, che ha dato vita all’esperienza di LiberaInformazione, diceva sempre: ‘Le notizie non nascono orfane e non devono morire orfane’. Mai fermarsi alla superficie. Questa è l’unica possibilità per mettersi al riparo dalle bufale”.
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