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Toghe contro toghe in un gioco (quasi) al massacro

Donatella Stasio il . L'analisi

magistratiLa narrazione della magistratura e del suo autogoverno affidata a libri, talk-show e media è di tale gravità e violenza da configurare un’emergenza democratica. Ma è davvero così? O è solo il frutto del clima elettorale e di vicende personali drammatizzate? Il rischio, però, è la perdita di credibilità della giurisdizione. Che è un bene comune e non dei soli magistrati.

«I magistrati si mangiano vivi come scorpioni in una bottiglia screditando irresponsabilmente la stessa Funzione Giudiziaria» (Giuseppe D’Avanzo, 9 dicembre 2008)

Una magistratura insabbiatrice, sensibile al potere politico ed economico, intimidita, sottomessa alle gerarchie giudiziarie e alla politica. Magistrati omertosi, e che hanno paura di esprimere opinioni per le ricadute sulla loro carriera.

Un Csm che gestisce le nomine agli uffici direttivi con metodi mafiosi, modo colorito per dire metodi per nulla trasparenti; precipitato in un baratro morale, sempre più in balìa del sistema parallelo delle correnti dell’Anm, veri e propri centri di potere che hanno occupato l’organo di autogoverno in tutte le sezioni, fanno quello che vogliono con spregiudicatezza, alimentano il carrierismo. Un Csm che − sacrificando e infangando la reputazione di un magistrato estraneo ad ogni corrente, che non aveva mai commesso errori – ha puntato − con la collaborazione dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano − alla gerarchizzazione degli Uffici di procura, riducendo in modo drastico l’autonomia della funzione requirente e aumentando la discrezionalità del capo.

Correnti dell’Anm simili a un tumore, con poteri di vita e di morte sui giudici, che hanno raggiunto ogni singolo ganglio dell’istituzione giudiziaria (dai dirigenti degli uffici ai Consigli giudiziari, dal Csm alla Scuola della magistratura, dal Massimario alla Commissione di concorso Mot), i cui attivisti sono i soli a fare carriera.

Un’Anm responsabile del carrierismo drogato e del produttivismo mortificante, usato come clava disciplinare sui riottosi.

E infine: la Procura di Milano ridotta a copia dell’Agenzia delle entrate, dove ormai non si fa più neanche un’inchiesta sulla corruzione. Una Procura guidata per cinque anni da un magistrato autoritario senza meriti professionali ma con una grande conoscenza dei palazzi delle istituzioni, che ha piegato norme interne, decisioni, codici, privilegiando la sensibilità istituzionale all’applicazione della legge, bloccando indagini politicamente rilevanti che potevano far male a politica ed economia, ostacolando l’esercizio autonomo e indipendente della giustizia, nel silenzio generale dei suoi sostituti. Un ufficio dove in quegli anni circolavano funzionari infedeli, servizi segreti, faccendieri.

Una magistratura sotto attacco nella sua autonomia e indipendenza…

Anche in assenza di virgolette, è con queste parole, e con toni e sfumature diversi ma sostanzialmente analoghi, che viene rappresentata pubblicamente la magistratura italiana da alcuni magistrati più o meno noti. Una narrazione affidata a libri, talk-show, interviste, media, che non può non destare preoccupazione. Di più. Allarme.

Se questa fosse realmente la fotografia della magistratura italiana, ogni cittadino dovrebbe sentirsi addirittura in pericolo, per se stesso e per la tenuta dello Stato costituzionale di diritto, di cui la giurisdizione è un pilastro fondamentale.

Se questo fosse davvero lo stato della magistratura italiana, il presidente della Repubblica – che è anche presidente del Csm − dovrebbe immediatamente intervenire per ripristinare la legalità costituzionale evidentemente violata, a garanzia dei cittadini italiani.

Se così stessero le cose, ogni ulteriore giorno di silenzio da parte di ciascun magistrato lo renderebbe corresponsabile di una situazione gravissima e intollerabile.

Saremmo insomma in una vera emergenza democratica.

Ma le cose stanno realmente così?

Alcune delle denunce su riferite ricordano quelle lanciate qualche anno fa dall’ex premier Silvio Berlusconi e dalla sua parte politica, contro le quali si mobilitarono non solo tutta la magistratura ma anche molti cittadini, riempiendo le piazze della Penisola. Stiamo parlando di una ventina di anni fa, non della preistoria. Una reazione sana e doverosa, per un’istituzione – la magistratura – che al di là di errori e criticità rappresentava un corpo sano e vitale della nostra democrazia. La magistratura per prima seppe arginare, in modo convinto e convincente, gli attacchi alle correnti e ai magistrati (le cosiddette toghe rosse) rei di fare soltanto il loro dovere; le accuse di politicizzazione contro la giurisdizione, in particolare contro la Procura di Milano; le reiterate offensive per erodere la discrezionalità delle toghe e per trasformare il Csm in un organo amministrativo. Ben chiara era la consapevolezza del danno derivante da parole fortemente delegittimanti per l’istituzione. Parole pesanti come pietre, capaci di distruggere l’indispensabile fiducia dei cittadini nella giustizia e in chi la amministra, ben al di là delle criticità del sistema dell’autogoverno e del servizio. Parole capaci di trasformarsi realmente in politiche della giustizia e che perciò rappresentavano un pericolo concreto.

Tornando all’oggi, le accuse vengono dall’interno della stessa magistratura, e sono violente. Riflessione autocritica o regolamento dei conti? Certo è che questo scuotere l’albero rischia di lasciarlo completamente nudo perché nel mirino c’è il Csm e il principio di rappresentanza. Dunque, la Costituzione.

Le parole usate da chi denuncia quanto sopra sono talmente pesanti che non viene affatto in discussione il diritto di pronunciarle (con toni analoghi o diversi) quanto, piuttosto, il dovere di dimostrarle puntualmente e quello di reagire a una realtà che – se fosse esattamente nei termini descritti, ancorché coloriti – sarebbe assolutamente al di fuori di qualunque legalità costituzionale e imporrebbe, quindi, una mobilitazione persino maggiore di quella del ventennio berlusconiano.

Non si può scherzare con il fuoco, perché ci si brucia. Qui si rischia di bruciare la giurisdizione poiché l’accusa di parzialità è la peggiore che si possa rivolgere a un magistrato. E con la credibilità dell’istituzione va in fumo anche la fiducia dei cittadini nella giustizia.

Come cittadina, mi attenderei una mobilitazione e, prima ancora, un’assunzione di responsabilità da parte di chi formula tali accuse e di chi le condivide, affinché sia scongiurato il rischio paventato, e cioè che la giustizia sia effettivamente “sotto attacco”, nel senso che i magistrati non siano più autonomi e indipendenti [1]. Altro che paura di parlare!

Il fatto che finora, però, non vi sia stata alcuna reazione e tanto meno mobilitazione, a partire dagli stessi magistrati, induce a ritenere che parole e toni risentano forse del clima elettorale (a luglio si vota per il Csm) o che siano frutto di vicende personali drammatizzate, ritenute paradigmatiche di un malcostume, peraltro privo di riscontri e anzi smentito da fiumi di atti ufficiali.

L’assenza di reazioni e di iniziative, insomma, lascia pensare che questo pericolo non sia così incombente – malgrado la durezza di parole, toni, accuse − e che la magistratura non sia così come viene descritta né tanto meno il Csm, l’Anm e le correnti. E ciò al netto di errori, criticità, difetti. Che ci sono, di cui si discute da tempo e che vanno affrontati. Ma in modo costruttivo, scongiurando delegittimazioni dell’istituzione e soprattutto evitando di minare in modo irreversibile la fiducia dei cittadini nella magistratura.

Senza mai dimenticare che dietro sigle come Anm, Unicost, Magistratura indipendente, Area, Magistratura democratica, Movimento per la Giustizia, Autonomia e indipendenza, dietro sistemi elettorali o regole di ogni natura ci sono sempre uomini e donne. E se anche venissero cancellate tutte le correnti, se anche i criteri di nomina dei direttivi venissero cambiati o sostituiti con automatismi e rotazioni, se anche si andasse al voto dei togati del Csm con il sorteggio o lanciando i dadi, alla fine sarebbero sempre uomini e donne a interpretare regole, criteri, potere. E a prendere decisioni, destinate comunque a scontentare qualcuno, e, quindi, a diventare impopolari.

Non c’è regoletta che possa sottrarre uomini e donne alla responsabilità dei propri comportamenti. Ma è l’etica della responsabilità che forse va rifondata, in una magistratura che, specularmente alla politica, oggi sembra allo sbando, pericolosamente attratta da un populismo giudiziario che fa pendant con quello politico. Oggi, la storia – del Paese come della magistratura – è quella raccontata nei talk-show, che fa scorticare le mani per gli applausi e impedisce ogni diversa e ulteriore riflessione. La magistratura ha vissuto certamente stagioni migliori, ma di tutto ha bisogno, oggi, salvo che di perdere il senso della propria storia e i suoi forti riferimenti culturali, giocando alla delegittimazione reciproca con parole, toni ed espressioni di cui non v’è traccia neppure nei più violenti attacchi dell’era berlusconiana e di cui proprio i cittadini subiranno le dirette conseguenze.


[1] Così riassume le varie denunce Riccardo Iacona, nel libro Palazzo di ingiustizia – Il caso Robledo e l’indipendenza della magistratura. Viaggio nelle Procure italiane, Marsilio editore. Questa la conclusione, a pagina 198: «Al di là delle vicissitudini personali che pure hanno attraversato i capitoli di questo libro, c’è un prima e un dopo Robledo. E il dopo che si sta profilando riguarda tutte le Procure e i Tribunali d’Italia: l’autonomia dei pm è di fatto sotto attacco. Non è mai stato facile portare a sentenza definitiva i colletti bianchi; nel dopo Robledo si rischia di non arrivare nemmeno al primo grado».

Questione Giustizia

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