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“Fuori la mafia dallo Stato”, urlavano nel 1992. L’epilogo dopo 25 anni

Rossella Guadagnini il . Mafie

sentenza-palermo-trattativa-stato-mafiaTutto cominciò quando tutto sembrava essere finito. Il 24 luglio 1992, nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac a Palermo, si svolgono i funerali in forma privata del giudice Paolo Borsellino, assassinato nella strage di via D’Amelio del 19 luglio. I familiari hanno rifiutato il rito di Stato, specificando in un’asciutta nota che alla cerimonia non è gradita la presenza dei politici. Agnese Piraino Leto, vedova del magistrato, accusa il governo di non aver saputo proteggere il marito. “Non meritavano questi uomini” dice, riferendosi anche a Giovanni Falcone, ucciso 57 giorni prima.

La potenza tragica di quell’epilogo, che poi epilogo non è stato, parve annichilire ogni cosa. La storia, tuttavia, pretendeva un riscatto. Se loro non li meritavano, l’Italia sì. Una folla enorme rende omaggio al passaggio dell’auto col feretro: le cronache del tempo parlano di 10mila persone. E’ un altro magistrato a tenere l’orazione funebre, Antonino Caponnetto, che era stato a capo dell’ufficio di Falcone e Borsellino: “Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi”.

La rappresentanza delle istituzioni è sparuta, ma c’è. Tra i banchi il neo Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, l’ex Presidente, Francesco Cossiga, Gianfranco Fini, Claudio Martelli. Il giorno prima, durante le esequie solenni nella cattedrale di Palermo dei cinque agenti di scorta caduti in via D’Amelio, la polizia è stata costretta a intervenire  per difendere i rappresentanti istituzionali. La tensione è altissima. La folla inferocita comincia a gridare “Fuori la mafia dallo Stato! Fuori la mafia dallo Stato!”. Loro sapevano, tutti sapevano: chi era tra i banchi della chiesa, chi era fuori nella piazza e in strada a gridare con rabbia lo sdegno.

C’è voluto un quarto di secolo, per la precisione 26 anni per dare una risposta “in nome del popolo italiano” a quei disordini civili. Lo Stato ha processato e condannato se stesso, grazie anche a un coraggioso manipolo di giudici -a cominciare da Antonio Ingroia che ha istruito il processo al pm Antonino Di Matteo che l’ha condotto in porto- che per cinque lunghi anni, in 220 udienze, ha affrontato le alterne vicende di un dibattimento in cui sono intervenuti -spesso a gamba tesa- Presidenti della Repubblica, governanti, politici, pezzi dell’Arma e dei Servizi, magistrati, giuristi, storici e giornalisti.

A conclusione la sentenza del 20 aprile 2018, col dispositivo letto in aula dal presidente della Corte d’Assise di Palermo, Alfredo Montalto, definita a ragione “storica”. Trattativa c’è stata tra pezzi dello Stato e della criminalità organizzata, il reato di “violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato” per piegarlo alle richieste mafiose è stato suffragato da prove convincenti. Una verità giudiziaria di peso comunque inferiore rispetto alla realtà storica e alla portata degli avvenimenti di allora e di poi. Perché il tempo è trascorso e l’interesse pubblico è andato  affievolendosi, perché l’aria è cambiata e molti degli interessati sono nel frattempo passati a miglior vita. Che ne avrebbe detto, ad esempio, Totò “u curtu”, il capo dei capi Riina che a Di Matteo voleva far fare “la fine del tonno”? Anche lui se n’è andato portandosi via i suoi sporchi segreti. Perché -soprattutto- come ha detto provocatoriamente Di Matteo, ci vorrebbe un “pentito di Stato”.

I difensori di Marcello Dell’Utri (braccio destro di Silvio Berlusconi, con lui fondatore di Forza Italia) e del generale Mario Mori, entrambi condannati a 12 anni, annunciano ricorso. L’ex capo del (vecchio) Ros, il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, ha detto a dicembre scorso “Devo veder morire i miei persecutori”. Condannati anche Leoluca Bagarella e Antonio Cinà (ultimi tra i malavitosi rimasti dopo la scomparsa di Provenzano e Riina), e per le forze dell’Ordine il generale Antonio Subranni (il ‘punciutu’ secondo la definizione di Borsellino, cioè ‘punto’ dalla mafia) e il colonnello Giuseppe De Donno.

Nino Di Matteo, invece, che è riuscito a dimostrare come Stato e mafia possano essere dalla stessa parte, ricorda di essere stato accusato di “finalità eversive”. “Abbiamo sempre avuto la consapevolezza di aver fatto emergere dei fatti, avvenuti tra il 1991 e il 1994, che prima non erano emersi. Resta da capire come mai rispetto al fallito attentato all’Olimpico di Roma, il 23 gennaio 1994, Cosa nostra abbandonò le stragi e avviò una lunga fase di tregua nell’evitare il frontale attacco allo Stato. Questo dovrebbe essere uno spunto di riflessione. La sentenza rappresenta un accertamento giudiziario che può anche essere un punto di partenza per ulteriori indagini sulle stragi”. E chi vuol intendere intenda.

Per tutti coloro che non ci sono più, silenzio: a loro si è resa giustizia con degna sepoltura. Noi non dimenticheremo. Gli italiani Falcone e Borsellino se li sono meritati.

Fonte: MicroMega

La trattativa c’è stata

La censura del preside

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