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In difesa della Costituzione

Filippo Pizzolato* il . Istituzioni

CostituzioneLa tenuta della Costituzione e il legame con la Resistenza come fatto fondativo non sono messi in crisi solo dai gruppi e dai rigurgiti neofascisti. Certo, questi recano una sfida frontale e aggressiva, rispetto a cui sarebbe imperdonabile abbassare la guardia. Ma se di fronte alle provocazioni neofasciste sembrerà esserci in campo solo una retorica, il rischio è che in mezzo si formi una fascia sempre più consistente, se non di equidistanza, forse di indifferenza. La difesa della Costituzione deve sempre comprendere da una parte il momento della memoria storica del prezzo che la Costituzione è costata e, dall’altra, l’impegno concreto a liberarne le energie vitali.

Il vero, duraturo, antidoto al riemergere del fascismo e insieme il motore dell’attuazione costituzionale sono la partecipazione organizzata dei cittadini e cioè la consistenza di un popolo concreto e plurale, capace di dare il «combustibile» che Calamandrei invocava per la Costituzione e di isolare minoranze eversive. Su questo piano si gioca l’idea di democrazia, tutt’altro che scontata e banale, cui la nostra Costituzione tende. Ed è un’idea – dobbiamo dircelo con onestà – che non abbiamo perseguito. Anzi ce ne stiamo allontanando.

La formula dell’art. 1 della Costituzione, la «Repubblica democratica fondata sul lavoro», non è un’espressione retorica, ma sintetizza l’obiettivo di una democratizzazione che, con i termini del costituente Dossetti, potremmo chiamare «sostanziale». Significa che la sovranità appartiene a un popolo concreto, non a un’astrazione, e, proprio perché concreto, plurale e articolato, con la sua trama di formazioni sociali, di autonomie territoriali, di comunità linguistiche, di confessioni religiose, tanto per citare solo le linee tracciate dai principi costituzionali. Per un popolo così pluralmente concepito, la Costituzione traccia e apre canali molteplici di una partecipazione che sia feriale e continuativa per una costruzione cooperativa della convivenza, nelle diverse sfere del vivere associato: civile, economica e anche politica. L’impegno sociale, il tempo di cura e di volontariato, l’impegno professionale, anche i più umili, sono tempi e occasioni di democrazia, sono tempi e occasioni per la democrazia, non interstizi irrilevanti o mero oggetto di decisione del potere.

Attraverso questa diffusione dei canali e delle forme della partecipazione popolare, la democrazia poteva e doveva mettere radici, guadagnare «spessore», penetrando le strutture profonde della società e da lì entrare in un rapporto di integrazione con la sfera delle istituzioni. Di partecipazione sociale economica e anche (non solo!) politica (art. 3) parla infatti la Costituzione, lontana quindi dallo schema, ormai ovunque trionfante, della democrazia «governante», di sola investitura, in cui cioè i cittadini sono ridotti a elettori, e perciò non lo sono i minori, né quanti vivono, studiano e lavorano tra noi e che ciò nondimeno sono stranieri per una legge inadeguata, ma non certo per la Costituzione.

Potremmo dire che, in certa misura, il popolo che la Costituzione riconosce sovrano, più che un soggetto chiuso o delimitato, magari entro un circolo di rapporti di sangue, è un processo sempre in costruzione, il frutto di un’integrazione di cui il «lavoro», con la sua sintesi di libertà e responsabilità, di libertà e partecipazione, è il principio attivo.

E tuttavia questa idea cooperativa di una democrazia sociale, economica, prima che solo politico-istituzionale, che si alimenta di tutti i diritti e delle connesse responsabilità, e non solo del voto, non ha mai trovato davvero attuazione e anzi ha cessato di essere, anche tra le forze eredi del patto costituente, un ideale da perseguire. Viviamo in una democrazia senza spessore, ridotta al solo versante dei poteri istituzionali e, ulteriormente amputata a criterio di legittimazione del comando di una maggioranza, tanto che perfino la dialettica tra le parti, dentro le istituzioni, è vissuta come seme di un pluralismo degenerativo. L’aspirazione alla democratizzazione sostanziale ha lasciato il campo a uno scollamento crescente e allarmante tra cittadini, attori sociali ed economici, e la sfera istituzionale. Il raccordo è rimasto affidato quasi unicamente al sistema dei partiti.

E tuttavia, proprio in questa fondamentale funzione connettiva, i partiti sono progressivamente mancati e, sia pure di fronte all’evidenza crescente di questo limite, sono stati incapaci di un’autentica autoriforma. Nell’ultima campagna elettorale, si è anzi assistito, da questo punto di vista, a un regresso preoccupante. La recente riforma della democrazia interna dei partiti si è rivelata, come si poteva prevedere, lacunosa, limitata a un rafforzamento di requisiti formali di trasparenza che non hanno però intaccato il nocciolo duro della discrezionalità, fino all’arbitrio, dei meccanismi della selezione delle candidature. L’allontanamento dei partiti dal territorio e la loro contrazione in leadership nazionali, mediaticamente sovraesposte e fatalmente caduche, hanno fatto il resto.

La democratizzazione sostanziale è una prospettiva abbandonata, più che fallita. La democrazia è ripiegata nella selezione di élite governanti, senza peraltro che per questa selezione sia predisposto uno strumento coerente e limpido e cioè una legge elettorale che favorisca la riconoscibilità e la responsabilità degli eletti.

Difendere la Costituzione antifascista significa allora non concedere nulla alla retorica e nemmeno semplicemente gridare a un populismo che molti hanno alimentato e che non può divenire alibi di un’autoassoluzione. Il populismo si affronta ridando voce, protagonismo e responsabilità alle espressioni plurali del popolo sovrano, senza pretendere di semplificarle, di ridurle a una sola voce (quella della maggioranza del momento). Era stato il fascismo a pretendere che il popolo si esprimesse con una sola voce, semplificata e affidata al capo, quella della maggioranza, per quanto poco genuinamente formata.

Per riprendere il filo dell’attuazione costituzionale, occorre pertanto ripartire dai luoghi residui in cui la partecipazione dei cittadini è ancora possibile che trovi parola. Dinanzi a una partecipazione divenuta molecolare, se non liquida, che ha sfibrato le classiche formazioni sociali e il mondo del lavoro, ciò deve significare soprattutto ripartire dal tessuto ancora vitale delle autonomie e, in particolare, dalle città. Gli enti locali sono i canali privilegiati di un dialogo tra i cittadini, singoli e associati, e la sfera istituzionale. Potremmo quasi dire che gli enti locali hanno sostituito i partiti nel ruolo di cinghie di trasmissione tra cittadini e istituzioni. La stessa partecipazione sociale rifugge scenari di grande trasformazione politica, a cui non sembra credere più, e predilige un’attivazione concreta e amministrativa. Un’amministrazione cittadina aperta e illuminata è ancora in grado di coinvolgere, su questo piano, i cittadini attivi. Dagli enti locali si dovrebbe dunque ripartire con forza per riannodare i fili strappati del discorso della democrazia sostanziale. La riattivazione delle reti sociali è il presupposto fondamentale per un tessuto di
autogoverno partecipativo. Le città sono dunque il luogo possibile di promozione della partecipazione sociale.

Per la partecipazione economica, la democrazia sostanziale della Costituzione chiede di ricostruire le possibilità di una partecipazione del lavoro, a cominciare dalla partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Non per una conquista del potere politico, o necessariamente per antagonismo rispetto all’impresa: democrazia economica significa anzi tutto – come indica l’art. 46 Cost. – fare del lavoro stesso un luogo di libertà, di partecipazione appunto, di espressione della creatività del lavoratore, che vi si possa esprimere come persona e non in condizioni di degradante soggezione. Per questo obiettivo, è fondamentale anche l’Unione Europea, ma non basta nemmeno qua una difesa retorica dell’europeismo e della globalizzazione carica di promesse per rassicurare i lavoratori, soprattutto quelli meno qualificati, sensibili all’insidia recata dall’apertura dei mercati e dalla conseguente concorrenza – spesso sleale – portata da altri ordinamenti giuridici (anche europei) e attori economici. Dalla globalizzazione economica trae vantaggio un’élite che, per istruzione o potere economico, sa e può cogliere le opportunità dell’apertura dei mercati, ma che, al contempo, non si fa scrupolo di perdere il legame con il territorio, sostituito da una rete eterea di relazioni cosmopolitiche e transazioni telematiche. Va rilanciata una prospettiva di Europa dei popoli che deve essere un’Europa sociale e dei territori, capace di assumere la fatica e la paura di cittadini divenuti precari nel nuovo (dis)ordine economico.

In tutto questo, occorre muoversi secondo una rotta ben precisa, che la Costituzione segna: il punto di vista di chi sta peggio. La qualità di una convivenza, ci ricorda la Costituzione, si misura sul modo in cui è trattato chi è più fragile, e non – come spesso accade – sul metro delle punte d’eccellenza, perché è la fragilità la condizione in cui ogni uomo e ogni donna si può riconoscere e che, prima o poi, tutti gli uomini e tutte le donne attraversano. In questo attraversamento, la Costituzione può ancora essere la bussola e insieme la garanzia.

*Comitato bergamasco per la difesa della Costituzione

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