Ilaria, Federica e il coraggio del limite
Questa settimana è stata molto particolare per il giornalismo italiano, attraversato da scadenze giudiziarie, fibrillazioni interne e nuovi episodi di violenza in danno di colleghi. Una settimana di passione, difficile sicuramente ma anche molto istruttiva sul ruolo della categoria e sul richiamo, necessario e doveroso, all’articolo 21 della Costituzione, che tutela non solo il diritto ad informare, ma anche quello ad essere informati. Cerchiamo di trarne qualche riflessione, utile innanzitutto per noi e, speriamo, anche per i lettori, sempre che ve ne siano di coraggiosi disposti ad arrivare alla fine di queste elucubrazioni.
Una settimana che si annunciava già carica di tensioni per quanto era venuto alla luce sul serio progetto di attentato ai danni di Paolo Borrometi, cui rinnoviamo la nostra amicizia e vicinanza. Un censurabile tentativo, peraltro maldestro e operato dal legale della persona indiziata, di delegittimare il collega è durato lo spazio di poche ore. Questo però non deve autorizzare ad abbassare la guardia.
Crediamo che la miglior garanzia per Borrometi siano la professionalità e la lucidità dimostrata dagli inquirenti e dalle forze dell’ordine, più che i riflettori costantemente accesi sul suo caso, che comunque non vanno spenti, rilanciando anzi la proposta fatta ai direttori delle testate, ma piuttosto parzialmente attenuati in questa fase per ridare serenità quotidiana e condizioni di agibilità minima a chi è stato fatto oggetto di così pesanti intimidazioni.
Alpi/Hrovatin, il filo della speranza
Martedì 17 aprile si è tenuta l’udienza davanti al Gip del Tribunale di Roma, chiamato a decidere della richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica sul duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Le associazioni della professione giornalistica, insieme a Libera e Legambiente, si sono date appuntamento all’ingresso degli uffici giudiziari di piazzale Clodio, per testimoniare la vicinanza a Luciana Alpi, madre della giornalista del Tg3 e per ribadire che, nel caso la vicenda giudiziaria avesse dovuto subire uno stop, non si sarebbe mai smesso di cercare verità e giustizia anche dopo 24 anni.
Contro ogni previsione, c’è stato un colpo di scena che raccontiamo anche su Libera Informazione e che consente, dopo oltre due decenni e soprattutto dopo numerosi passaggi a vuoto e depistaggi istituzionali, di individuare un sottile filo rosso al quale affidare la speranza di un nuovo percorso giudiziario. Sono state depositate nuove intercettazioni che riaprono tanti interrogativi, peraltro già sollevati in passato dal Tg3. Vedremo cosa succederà da qui al prossimo 8 giugno, giorno in cui è fissata la nuova udienza.
Non va dimenticato che Libera Informazione ha sempre accompagnato la richiesta di giustizia sul caso Alpi, per due ovvi motivi.
Il primo era legato alla vicinanza alla famiglia Alpi che Libera ha costantemente assicurato, come è sempre successo per altri familiari di vittime, come tratto fondante la propria mission.
Il secondo è legato ai nomi di Roberto Morrione e Santo Della Volpe, uomini del servizio pubblico, che prima al suo interno poi alla guida della nostra testata, hanno costantemente illuminato l’esecuzione di Mogadiscio per evidenziare lacune e ritardi nell’inchiesta. Basta navigare all’interno della sezione del nostro sito dedicato all’affaire Alpi/Hrovatin, per ritrovare i loro scritti e rendersene conto.
Quindi proprio per rispetto alle famiglie dei colleghi uccisi in Somalia, quanto per coerenza con quanto Roberto e Santo sostenevano in questa sede, ci piacerebbe ritrovare unità d’intenti e di direzione nell’accompagnamento di una nuova – questo è l’auspicio – fase processuale e, eventualmente, anche parlamentare e non dover assistere invece alla rincorsa a primogeniture e scoop, rincorsa ancor più stucchevole, visto che abbiamo a che fare con una vicenda che ha i contorni indefiniti e indefinibili del segreto di Stato.
Riusciremo come categoria giornalistica a farlo, tutti insieme, senza pestarsi i piedi a vicenda e rinunciando almeno per una volta all’ansia da prestazione?
Indomita?
E veniamo a giovedì 19 aprile, un altro appuntamento cruciale con un’altra vicenda giudiziaria: la testimonianza in aula di Federica Angeli, chiamata a deporre sul tentato duplice omicidio nel quale sono imputati Carmine e Ottavio Spada, signori del crimine in quel di Ostia. Proprio a seguito della denuncia dei due, la cronista di Repubblica è finita sotto scorta.
Anche di quanto è avvenuto abbiamo dato notizia, riproponendo il comunicato conclusivo della Fnsi, al termine della deposizione nell’aula Occorsio, aula gremita di rappresentanti del mondo giornalistico, ma soprattutto di studenti, professori, cittadini semplici e rappresentanti di associazioni.
Su questa vicenda, ho avuto uno scambio di opinioni con un caro amico e collega perché, raccontando sui social la deposizione, avevo definita “indomita” la Angeli. Mi si “rimproverava” cioè il fatto di contribuire in tal modo alla sovraesposizione della giornalista ben oltre il dovuto, soprattutto in un periodo in cui episodi di violenza e minacce ai rappresentanti del quarto potere si moltiplicano.
Inizialmente ho opposto una debole difesa, sostenendo di aver scelto quest’aggettivo per non dover ricorrere ad un altro – coraggiosa – altrettanto abusato. Mentre la discussione tra noi continuava, andavo però sempre più prendendo coscienza dell’opzione lessicale fatta, forse inconsciamente adottata sul momento, argomentandola però in questi termini alla fine.
Federica Angeli si è dimostrata davvero indomita, perché prima ancora di essere una giornalista innamorata del suo lavoro, ha dimostrato con la sua scelta di testimoniare la volontà di non essere omertosa, di non voler obbedire alla legge non scritta ad Ostia e imposta da Spada e Fasciani, ma di voler rispondere soltanto alla sua coscienza, facendo il suo dovere di cittadina.
Chiuso il confronto con reciproca soddisfazione, sono andato anche a cercare conforto nel vocabolario Treccani: indomito si dice tanto di animale quanto di popolo che non essendo domato, è fiero e ribelle, per nulla disposto a lasciarsi sconfiggere.
Indomito è aggettivo che accompagna spesso i termini coraggio e volontà. E visto che di coraggio e volontà Federica Angeli ne ha dimostrati davvero tanti in questi anni, in cui ha sacrificato sé stessa e i suoi affetti familiari più cari in una vita sotto scorta, di lei si può ben dire indomita.
Tra storia e cronaca
Siamo arrivati così a venerdì 20 aprile, una giornata che passerà alla storia per la sentenza di Palermo che ha chiuso, almeno in primo grado, la vicenda della trattativa tra Stato e mafia.
Anche prima della sentenza odierna, non sarebbe stato possibile dire e scrivere di “processo farsa” e “boiata pazzesca”, eppure alcuni giornalisti e alcune testate l’hanno fatto senza alcuna remora o vergogna e di questo non faranno mai ammenda, ne siamo certi.
Ora ci dispiace che l’esito di questo processo, strategico anche per lo sviluppo di ulteriori approfondimenti investigativi, venga ridotto solo nella lettura miope e riduttiva dell’attuale passaggio politico. Basta scorrere le prime pagine dei giornali del giorno dopo per rendersi conto di come questo pericolo incomba.
Ci auguriamo uno scatto in avanti nell’analisi che abbia la forza di ergersi oltre la prospettiva politica contingente, che finirebbe ancora una volta per consolidare i fronti dei colpevolisti e degli innocentisti solo per partito preso, senza avere la capacità di andare in profondità.
Non serve attendere le motivazioni della sentenza, per provare a interpretare quello che queste condanne ci raccontano. Alcuni colleghi lo stanno facendo, ma soprattutto lo hanno fatto in tempi non sospetti e in passato, con articoli, inchieste che hanno il pregio di resistere all’usura del tempo.
Libera Informazione è ben lieta di averli ospitati e continuerà a farlo, anche in questo caso senza alcuna pretesa di esclusiva, ma piuttosto per spirito di condivisione, facendo tesoro di quella lezione giornalistica che abbiamo ricevuto dai nostri direttori.
Ma venerdì 20 aprile è stata anche una giornata che ha riservato nuove aggressioni a giornalisti di testate pubbliche e private.
L’ex ministro della Repubblica Mario Landolfi ha preso a schiaffi per la pubblica via Danilo Lupo, inviato di “Non è l’Arena”, programma condotto da Massimo Giletti su La7, reo soltanto di aver fatto il suo dovere professionale, chiedendogli un parere sui vitalizi parlamentari.
A Giorgio Mottola, invece, che lavora per “Report” diretto da Sigfrido Ranucci e in onda su Rai3, è successo di subire l’aggressione fisica da parte Renato Papagni, presidente della Federbalneari di Ostia, indispettito per le domande impertinenti. Torna ancora una volta Ostia, e ancora una volta è coinvolto un membro della famiglia Papagni, fratello di Paolo, già a processo con Armando Spada per le minacce a Federica Angeli e protagonista, ad inizio settimana, di uno show senza freni inibitori sempre in tribunale, davvero istruttiva del contesto esistente sul litorale romano.
Nel ribadire con convinzione la solidarietà umana e professionale di Libera Informazione a questi colleghi, davvero indomiti nell’accezione prima utilizzata, ci interroghiamo sulla preoccupante deriva in atto e sulle possibili contromisure.
Fatta salva l’utilità della scorta mediatica che viene rilanciata in occasioni di questi episodi meritoriamente da Fnsi e le altre associazioni di categoria; confermata la necessità di denunciare intimidazioni verbali e aggressioni fisiche, come abbiamo ribadito qualche riga sopra in riferimento alla vicenda di Paolo Borrometi, non vorremmo però che prevalessero le condizioni di una generale assuefazione a quella che ci sembra proprio una “caccia al giornalista”, dove diventa quotidianità l’aggressione fisica e verbale ai danni di chi, per lavoro, fa domande.
Nei decenni scorsi, tanti valenti giornalisti subivano periodicamente minacce e intimidazioni e, sicuramente per una ridotta consapevolezza professionale prima ancora che civile, non ne denunciavano l’esistenza e vivevano in solitudine questa condizione. Non ci riferiamo ovviamente ai colleghi caduti nell’adempimento del loro servizio, ma a quanti, senza perdere la vita, sono stati però costretti a vivere costantemente sul filo del rasoio, dovendo guardarsi sempre e comunque le spalle, ogni volta che uscivano da casa o da un bar.
Un nome per tutti, Giò Marrazzo. Un grande della professione che fece il suo lavoro, senza curarsi di quanti lo aggredivano o minacciavano. Senza indietreggiare di un passo.
Quello che vogliamo dire è che da un lato, ci sembra che sia diventato normale aggredire, anche fisicamente, un giornalista, perché tolta l’indignazione di pochi giorni e i servizi giornalistici o televisivi dedicati, non si paga alcuna reale conseguenza. Anzi si alimenta uno spirito di emulazione negativo che prende tutti, dal boss che spadroneggia in periferia al politico che passeggia per le vie della capitale.
Dall’altro lato, sempre per assuefazione e oggi più che ieri, lo schiaffo o la minaccia vengono conteggiati quali titoli di validazione della professione, a prescindere dal lavoro svolto.
Nessuno si adombri per carità, non abbiamo velleità riduzioniste o negazioniste del problema, solo ci piacerebbe che riscoprissimo insieme il coraggio del limite, fatto di rigoroso autocontrollo e di un serio approccio a temi scottanti quali mafia, corruzione e politica, dove chi realmente tocca i fili muore..
Insomma, sarebbe necessario un generale ripensamento della questione dei giornalisti minacciati, perché non vorremmo che i primi a pagarne le conseguenze fossero proprio i colleghi realmente in pericolo e sotto scorta, ridotti a idoli prêt-à–porter di media e/o consessi compiacenti, spesso plaudenti senza cognizione di causa e, in realtà, impediti nello svolgimento del proprio lavoro, unico e reale titolo di misura del valore di questa difficile ma bellissima professione.
Su questo tema ci piacerebbe si aprisse un confronto serio all’interno della categoria, andando oltre le logiche di appartenenza a questa o a quella sigla, superando i recinti di quelle che Roberto Morrione amava definire “le tante tribù del giornalismo italiano”.
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