Appello Mafia Capitale. Le richieste dell’accusa
“Il pericolo più grande che corriamo (come giudici, ndr) è quello di partire da una convinzione e adattare la realtà alla nostra convinzione anziché fare il contrario. Dovremmo cioè partire dalla realtà e poi adattare a essa la nostra decisione”. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini si stagliano nel silenzio dell’aula bunker di Rebibbia, dove si sta celebrando l’appello del processo “Mondo di Mezzo”. Parole che insinuano il dubbio sull’operato dei giudici della X sezione del Tribunale di Roma, quelli che non hanno riconosciuto la mafiosità del sodalizio criminale sviluppatosi attorno a Massimo Carminati e Salvatore Buzzi.
È il 29 marzo e questa è l’udienza in cui la pubblica accusa avanzerà le proprie richieste alla III Corte d’Appello presieduta da Claudio Tortora. Fra i 43 imputati, per 19 dei quali si chiederà l’associazione mafiosa, si registrano delle defezioni. L’ex Nar e il ras delle cooperative, detenuti rispettivamente nel carcere di Milano e in quello di Tolmezzo, seguono invece tutto in videoconferenza.
Prima di lasciare la parola alla Procura Generale che formulerà le richieste di condanna, i pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini ripercorrono quella che è stata la linea tenuta su Mafia Capitale dalla Procura di Roma fin dal primo grado di giudizio e ne illustrano le motivazioni del ricorso. “Gli uffici requirenti ritengono di non condividere l’impostazione del tribunale”, dichiara subito Tescaroli, sia perché è mancata una valutazione unitaria e complessiva dei fatti, arrivando così a una “atomizzazione dei profili valutativi”, ma “soprattutto perché non c’è stato il raffronto del giudice con il percorso valutativo sotteso all’impostazione d’accusa”.
Il focus dei pm è tutto sulla configurazione dell’associazione mafiosa. L’accusa sa che deve chiedere ai giudici di abbandonare quella che è una idea stereotipata, “oleografica”, di mafia. Sta a Cascini presentare la mafiosità di questo gruppo che ha esteso il suo potere fin nei gangli della macchina amministrativa della Capitale. E sì, un gruppo: uno solo. Perché per la Procura il sodalizio nato attorno a Carminati e quello che si è sviluppato attorno a Buzzi vanno visti come un unicum, come due parti dello stesso corpo che svolgono sì mansioni diverse ma contribuendo entrambe allo stesso obiettivo.
Le parole dell’aggiunto sono un continuo spostarsi dall’atteggiamento tenuto dei giudici di primo grado e ciò che invece l’attuale collegio giudicante è chiamato a fare: “Non si tratta qui di decidere se a Roma c’è la mafia, ma si tratta puramente e semplicemente di affrontare un tema di diritto: e cioè se questa organizzazione criminale si connota di alcuni elementi specifici che, secondo la legge, rientrano nella ipotesi sanziona dall’ articolo 416 bis”. Come a dire: è necessario non stare già con la testa alle conseguenze di un ipotetico giudizio che affermi la presenza di una mafia non derivata a Roma; è necessario intanto esaminare i fatti, uno per uno. Cosa che, non tarda ad aggiungere Cascini, è stata a suo dire la linea guida seguita dell’accusa, che ha riportato sempre le richieste su un piano di verità – limitandosi quindi ad esaminare i fatti- e non di volontà – ovvero senza perseguire una tesi preventiva su cui convergere.
Cascini afferma che in primo grado “il tribunale è venuto meno al vincolo della ricostruzione della norma di diritto applicabile e al vincolo dell’aderenza ai fatti”. Per l’aggiunto il tribunale, quindi, non poteva arrivare alla configurazione dell’aggravante mafiosa per una impostazione pregiudiziale. Una convinzione dalla quale, sembrerebbe dire il procuratore, non si è usciti nonostante alcune incongruenze: da quella di non considerare le ultime pronunce della Cassazione in merito ai gruppi mafiosi, come nel caso dei Fasciani o nel provvedimento cautelare di questo procedimento, a quella di non valutare che alcune caratteristiche di “mafiosità” sono tali perché appartengono alle dinamiche cui si applicano; da quello di dire nella prima parte della sentenza che il controllo del territorio non è necessario per la configurazione del 416bis, sebbene sia esso uno degli indici rivelatori dell’esistenza di una associazione mafiosa, fino a trascurare quanto sottolineato dalla Cassazione che “esplicitamente dice: la dimensione dell’associazione non è rilevante perché bastano tre persone e non è necessario che siano armate, quindi non è necessario l’uso di quella violenza particolarmente feroce alla quale noi associamo costantemente l’idea di mafia”.
E ancora, sottolinea Cascini, “il solo argomento che usa il Tribunale per dire che non può essere unica associazione che non si conoscono tutti gli associati tra loro”. Un punto di vista, questo, che nega la realtà poliedrica delle associazioni criminali che tutti i giorni finiscono nelle aule di giustizia. “Ho sempre letto – continua Cascini -la premessa ‘non è necessario che si conoscono tutti l’importante è che i singoli associati sabbia sappiano di far parte di una realtà mai da individuale conoscono genericamente il programma criminoso dell’associazione’…”.
Non riconoscere l’aggravante mafioso è stato dunque per l’accusa un limite dei giudici di primo grado. Giudici che, ricorda l’aggiunto, hanno trascurato la paura dei testimoni chiamati a deporre in aula, gli stessi che magari vedevano collegato Carminati, il boss cui tutti obbediscono “perché riconoscono il suo potere criminale. Non ci sono dubbi” e questa “è una dimostrazione della omertà che viene imposta dalle associazioni mafiose”.
“Chiediamo con convinzione e in modo fermo l’accoglimento degli appelli, soprattutto per quel che riguarda la qualificazione del reato associativo”, dice il Procuratore Generale Antonio Sensale. “Vi stiamo chiedendo una sentenza coraggiosa. (…) Dovete avere il coraggio di riconoscere che una organizzazione criminale – e non voglio usare il termine mafia – strutturata come quelle tradizionali può nascere anche in zone diverse, con tipologia in parte diversa”. Per questo il pg chiede che venga ripristinato “il 416bis nelle forme pluriaggravate nelle quali viene contestato e viene ritenuto sussistente l’articolo 7 per le estorsioni e gli episodi corruttivi contestati”.
Una richiesta che complessivamente si traduce in 430 anni di carcere da dividere fra gli imputati. Nello specifico, sono stati chiesti 26 anni e mezzo per Carminati e 25 anni e nove mesi per Buzzi. Ancora, la pubblica accusa ha chiesto 24 anni per Riccardo Brugia, 21 anni e mezzo per Fabrizio Franco Testa, 19 per Roberto Lacopo, 18 anni e mezzo per Luca Gramazio, capogruppo Pdl prima in Campidoglio, sotto la giunta Alemanno, e poi capogruppo forzista in Regione, unico politico a vedersi contestare il 416bis. La Procura ha inoltre chiesto 18 anni per Matteo Calvio, 17 anni e mezzo per Paolo Di Ninno, 17 anni per Alessandra Garrone, 16 anni e 10 mesi per Agostino Gaglianone, 16 e due mesi per Giuseppe Ietto, 16 per Cristiano Guarnera. 16 anni sono stati chiesti anche per Rocco Ruotolo e Ruggiero Salvatore, mentre per Carlo Maria Guarany la richiesta è di 15 anni, 14 anni e mezzo per Franco Panzironi, ex ad di Ama SpA, e Carlo Pucci e 13 anni e mezzo per Nadia Cerrito. Il pg ha inoltre sottoposto al vaglio della Corte le pene concordate con Luca Odevaine (5 anni e due mesi di reclusione) e con Claudio Turella (6 anni).
“L’organizzazione di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati assume in sé tutti i connotati dell’associazione a delinquere di tipo mafioso”, dice l’avvocato Giulio Vasaturo, legale di parte civile per Libera in questo processo. “Nel solco della giurisprudenza di Cassazione va riformata la sentenza di primo grado, condannando gli imputati per mafia”.
Il prossimo appuntamento è per l’udienza del 5 di aprile. Staremo a vedere.
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