Caporalato, “Noi non ci dimentichiamo di voi”
Le intimidazioni sono sempre il tentativo, pavido e vigliacco, di mettere a tacere donne e uomini che cercano di fare, con senso di responsabilità, il proprio lavoro. Capita ogni giorno, in Italia e all’estero, e in alcuni casi, giornalisti, ricercatori, attivisti, perdono la vita per mano mafiosa e criminale. In provincia di Latina capita spesso, purtroppo, di registrare episodi intimidatori di diversa natura. Alcuni colleghi hanno ricevuto decine di denunce temerarie, intimidazioni neanche troppo velate, sono stati esclusi da conferenze stampa e minacciati direttamente. Si tratta di reazioni che arrivano da chi non ama essere citato ma che vuole restare al potere ad ogni costo per continuare a fare affari di ogni genere o mantenere posizioni di potere.
La sensazione che si prova quando si subiscono tali azioni è innanzitutto di rabbia e di scoramento. Ed è ciò che ho provato quando, appena due settimane fa, ho trovato, per l’ennesima volta, la mia auto sotto casa vandalizzata. Le ruote squarciate, il cofano con quattro fori probabilmente realizzati con un cacciavite, il vetro anteriore scheggiato, la fiancata graffiata ripetutamente. Per l’ennesima volta le inchieste, giornalistiche e sociali, che sono state messe in campo, non solo a scopo di indagine e informazione ma quale servizio utile per superare interessi e pratiche mafiose o legate al mondo del caporalato agricolo, hanno evidentemente infastidito padroni, caporali e portatori di interessi criminali vari.
Questa volta, però, la risposta collettiva è stata straordinaria e di questo ringrazio quanti non hanno fatto mancare il loro affetto. Amici, associazioni, sindacati, alcuni amministratori locali (i Sindaci di Latina e Sabaudia), colleghi giornalisti e relativi ordini e organizzazioni rappresentative (Fnsi ad esempio), partiti politici, università (Cà Foscari), istituti di ricerca (Eurispes) e braccianti indiani e italiani, hanno costituito naturalmente quella “scorta mediatica” che mi ha fatto sentire parte di una comunità civile e responsabile. La loro vicinanza ha curato ferite e paure e, soprattutto, ha dimostrato che il lavoro in rete condotto in questi anni, per quanto faticoso, ha dato frutti resistenti e forti molto più di ogni minaccia e ritorsione.
Non è la prima volta che accade, e forse non sarà l’ultima. Prima uno striscione (2014) in cui, insieme al mio collega Roberto Lessio, fummo accusati dalla curva Nord del Latina calcio, di essere “zecche di merda senza dignità”. La nostra colpa fu di aver pubblicato un’inchiesta sul quotidiano Il Manifesto sulla presenza all’interno della società sportiva di soggetti criminali legati al clan Ciarelli-Di Silvio. Presenze poi accertate grazie all’encomiabile lavoro condotto dalla Questura di Latina (allora Questore De Matteis) e dalla Magistratura. Oggi quella società si è liberata anche del presidente di allora, quale l’ex On. Maietta, all’epoca deputato di Fratelli d’Italia, che insieme al sogno/affare della sua squadra in serie A, regalava alla città frequentazioni assidue con criminali di primo livello. Frequentazioni che erano messaggi puntuali, segnali a chi doveva ben interpretarli, per dire, ancora una volta, “qui il capo sono io”. Un sistema di potere che non si limitava all’intreccio perverso tra pezzi deviati della politica locale e la criminalità organizzata, ma che esprimeva una forma infame di protagonismo da parte di soggetti impiegati in alcuni settori nevralgici dello Stato, almeno a livello locale, col compito di agevolare affari e interessi legali e illegali.
Sono stato accusato, con un volantino anonimo stampato e diffuso dopo lo sciopero del 18 aprile del 2016 in cui riuscimmo a portare, con la coop. In Migrazione, la Flai Cgil e la Comunità Indiana del Lazio, circa 4000 braccianti in piazza e davanti le aziende agricole per reclamare diritti, legalità, giustizia e il rispetto rigoroso del contratto di lavoro, in cui mi accusarono di gestire un traffico internazionale di esseri umani dall’India verso il Pontino e di percepire soldi per tutto questo a cui si aggiungeva il 10% dalle retribuzioni degli stessi indiani impiegati in alcune aziende agricole pontine. Una “macchina del fango” programmata per colpire non solo me ma un movimento di persone, lavoratori e lavoratrici soprattutto, impegnato in un’azione di liberazione dal giogo del caporalato, della tratta internazionale, del grave sfruttamento lavorativo. Gli autori del volantino forse trascuravano che, nelle campagne, ci sono stato realmente ma a lavorare come bracciante infiltrato tra braccianti indiani, reclutato tramite caporale indiano, lavorando sotto padrone allo scopo di osservare, come ogni buona ricerca sociale sul campo dovrebbe prevedere, le modalità organizzative e non solo che un sistema rodato e organizzato, in sé criminale, come ha ricordato anche la relazione finale della Commissione Antimafia dell’ultima legislatura, ha saputo, per interesse economico e politico, realizzare in modo capillare e diffuso. Sotto questo aspetto devo ringraziare il lavoro encomiabile dell’On. Mattiello che ha saputo interpretare in modo innovativo il caporalato e le modalità operative delle agromafie fino a raggiungere insieme il risultato straordinario di riscrivere la legge contro il caporalato (199/2016) prevedendo finalmente l’arresto del datore di lavoro oltre che del caporale e il sequestro e poi confisca dei beni utilizzati per il reclutamento e lo sfruttamento.
I soliti ign(di)oti, hanno, pochi giorni dopo quest’episodio, ancora bucato le ruote della mia auto di allora. Un gesto pavido e un segnale chiaro che significava, “ti teniamo d’occhio”, anche questo prontamente denunciato alla Questura di Latina.
E infine quest’ultimo episodio.
Io non so chi siano costoro, non saprei identificarli ne riconoscerli. Potrebbero essere facinorosi di estrema destra, ringalluzziti per il risultato elettorale ottenuto alle ultime elezioni politiche. Potrebbero essere caporali infastiditi dalle mie attività. Potrebbero anche essere alcuni padroni italiani (si badi che distinguo sempre con attenzione tra “padroni” senza scrupoli responsabili delle più spietate forme di violenza e sfruttamento nei confronti di molti braccianti, italiani e migranti, dagli imprenditori onesti e capaci di reggere il peso delle proprie responsabilità civili, legali ed economiche con quelle di un giusto e legittimo profitto), infastiditi dalle molte denunce presentate. Nel corso degli ultimi due anni, infatti, insieme ad un avvocato, ho battuto le campagne pontine ascoltando le storie di vita dei lavoratori indiani e delle loro famiglie, dando loro suggerimenti, registrando le loro testimonianze e spesso presentando con loro denunce puntuali nei confronti di padroni, caporali indiani, trafficanti di esseri umani, sfruttatori e faccendieri del malaffare vari, a partire da quell’universo, non piccolo, di liberi professionisti che hanno trovato nel “nuovo padronato agricolo” l’occasione per arricchirsi prestando le proprie consulente allo scopo di nascondere pratiche illegali diffuse ai danni dei braccianti indiani. Più di 150 sono le denunce penali, civili e di lavoro, presentate presso il tribunale di Latina. Ci sono stati i primi arresti di padroni e caporali, si stanno avviando i primi processi e in alcuni di questi gli stessi braccianti indiani si sono costituiti, insieme a In Migrazione e alla Flai Cgil, parte civile.
Potrebbero anche essere soggetti legati al mondo della malaccoglienza, già abbondantemente denunciato alla Camera dei Deputati in una importante conferenza stampa e con diverse inchieste giornalistiche. Sistema che “prestava” i propri ospiti, soprattutto richiedenti asilo sub sahariani, a caporali vari per impiegarli nella raccolta dei cocomeri e meloni per appena 20 euro al giorno.
Sarà la Magistratura ad accertare quanto accaduto poche settimane fa e a cercare i responsabili, avendo subito denunciato l’accaduto alla stazione del comando provinciale dei Carabinieri.
Di certo, proprio in ragione della levata di scudi dalla parte migliore e maggioritaria della società pontina e di molti esponenti di quella italiana, il messaggio mafioso che mi è stato recapitato del tipo “non ci dimentichiamo di te” è stato rispedito al mittente con una risposta chiara e inequivocabile: “anche noi non ci dimentichiamo di voi”.
La cosa migliore da fare, come ho avuto modo di dichiarare già, è continuare a fare con doppia determinazione e puntualità, il proprio lavoro, che è quello di scrivere, informare, indagare, ricercare fatti e processi che alcuni vorrebbero tenere nell’ombra del malaffare, per farli conoscere al più vasto numero di persone possibile, e provare ad organizzare e praticare quel necessario cambiamento dello stato di cose che rende il mio lavoro e le mie attività degne di qualunque sacrificio e impegno.
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