Trattativa Stato-mafia, ultimo capitolo
Sarebbe bello -per una volta- essere in America. In quell’America dell’ottimismo dove il bravo Perry Mason (interpretato dall’attore Raymond Burr) non perde mai e riesce sempre a smascherare il vero colpevole, assicurandolo alla giustizia. Ricordate? Ecco, quello è l’avvocato per eccellenza nel nostro immaginario: fa, disfa, riequilibra, è un giusto nel senso pieno del termine. Peccato essere in una fiction (della Cbs, andata in onda dal ’57 al ’66) e non nella realtà. La realtà è molto più cruenta, tenebrosa, devastante. Sia per i carnefici che, soprattutto, per le vittime. La realtà è più complessa e più ingiusta, è inimmaginabile e incredibile rispetto a qualsivoglia fantasia.
Dopo 4 anni e 8 mesi, dopo 210 udienze e una mole colossale di documenti, siamo finalmente all’ultimo capitolo -badate bene ‘capitolo’, non all’ultima ‘pagina’- un pre-finale, insomma, della Trattativa Stato-mafia, senza dubbio uno dei più importanti processi italiani, dal dopoguerra ai giorni nostri. Celebrato, dibattuto, discusso, spiegato, sussurrato, malgrado un avvio in sordina e un prosieguo che, a volte, non ha meritato l’attenzione del giornali e in genere dei mass media, come avrebbe dovuto. Chissà perché, chissà come mai. Ora la procura chiede 6 anni per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falso, 15 per il generale del Ros Mario Mori, 12 per l’ex senatore Forza Italia, Marcello Dell’Utri.
Comunque sia, tra capi d’accusa definiti “inconsistenti”, difetti di giurisdizione, udienze e rinvii, interrogatori e colpi di scena, malattie, contestazioni e rivelazioni, morti misteriose e morti eccellenti, finalmente ci siamo. Siamo giunti all’ultima parte della nostra storia, quella dove non si fanno sconti, dove se c’è da recriminare si recrimina, se ci sono fila da tirare è proprio il momento di farlo. I personaggi sono tutti in scena: criminali, mafiosi, politici, ministri, alte cariche dello Stato, delatori, carabinieri, servizi segreti, fiancheggiatori. E poi esecutori materiali, giudici, accusati, collaboratori, vedove, figli, testimoni, uomini della scorta, Palermo e la Sicilia. Quanta gente! E non tutta bella.
E’ un processo così significativo perché, in effetti, i buoni e i cattivi sono mescolati fin da subito, seduti allo stesso banco degli imputati. Perché i veramente buoni sono tutti morti e gli altri, i vivi, sono immediatamente riconoscibili, sorprendentemente riconoscibili, dal momento che sono uomini di potere. E solo loro, nel bene e nel male, nella criminalità e nelle istituzioni, solo loro sono in grado di prendere decisioni, possono e debbono farlo. E al contrario di tutti gli altri cittadini -tenuti in questo caso all’oscuro di quanto avviene, di quanto si opera, di quanto si rischia- imboccano una via piuttosto che un’altra, compiono delle scelte definitive che valgono per tutti. Scelte che sono di campo, ma anche no. Scelte a cui sono stati costretti, talvolta. Alcuni hanno detto perfino “scelte a cui eravamo obbligati” per ragioni di Stato, per un fine superiore.
Ragioni inspiegabili -evidentemente- a noi comuni mortali. Tant’è che alcuni -nel frattempo- se le sono portate nella tomba le loro ragioni e altri lo faranno: scompariranno con i segreti cuciti sugli occhi, con i motivi che li hanno soffocati conficcati in gola e non se ne saprà più niente, niente di niente. Silenzio. Anche il silenzio ha caratterizzato la Trattativa: un silenzio mortale prima e dopo, che impediva anche di chiamarla col suo nome. Un silenzio ambiguo, omertoso, inquietante, che ha coperto come un manto buio parole impronunciabili, decisioni assurde, patti scellerati, baci e strette di mano.
Ma quanto hanno rischiato gli uomini -donne per fortuna, è proprio il caso di dirlo, non ce ne sono state (la Trattativa è un fatto da uomini, è fatta di uomini, sono loro che governano il Paese)- che vi hanno preso parte da vicino e da lontano? E quanto hanno rischiato gli italiani, inconsapevoli di quanto stava accadendo, spettatori di ciò che avveniva intorno, senza una spiegazione apparente? Molto probabilmente, non solo la loro vita personale, ma anche la vita delle stesse istituzioni.
E se la verità giudiziaria metterà un punto a una vicenda fosca, il passare degli anni ci darà qualche risposta in più. Verità storica e giudiziaria sono due cose diverse, lo si impara col tempo, nostro malgrado: possono coincidere, ma non sempre avviene, perché possono addirittura divergere. Ci vuole coraggio perché questo non accada, perché “la verità” trionfi. Ci vuole una forte volontà, una spinta comune. Ma con la sentenza definitiva, comunque vadano le cose, un fatto è certo: l’Italia che si interroga sulla tenuta delle Istituzioni più nobili e alte, sulla forza della sua democrazia, sull’ardire dei propri sostenitori cambierà per sempre.
Il processo, infatti, ha portato impietosamente alla luce un grande affresco, tragico e sanguinoso del Paese, tra il ’92 e il ’94, un’immagine drammatica che porteremo dentro di noi e difficilmente potremo dimenticare. Quel punto di snodo tra la Prima e la Seconda Repubblica, che vide al nord del Paese Mani Pulite e la successiva caduta di 5 partiti storici, cui tenne dietro l’affermazione di Silvio Berlusconi e Forza Italia. Mentre al sud vide una trattativa con la criminalità organizzata, che ha in qualche modo toccato tre Capi di Stato, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, fino a Mattarella, tutti con ruoli di assoluto primo piano. E coinvolto regioni diverse: oltre ai morti in Sicilia e a quelli della Toscana -con la strage dei Georgofili- ci sono gli attentati di Milano e Roma.
I pm, a cominciare da Antonio Ingroia che ha coordinato le indagini, cui è subentrato Vittorio Teresi, fino a Nino Di Matteo che ha istruito il dibattimento, insieme a Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, si sono lamentati: hanno detto di essere stati lasciati soli. E, in effetti, le loro richieste troppo spesso non sono state ascoltate; la loro sicurezza è stata messa in pericolo; sono stati criticati, attaccati, minacciati, irrisi, ignorati. E quando è andata bene, gli si è reso difficile il lavoro o sono stati messi bastoni fra le ruote. Nel dare l’addio a Palermo, Di Matteo è stato molto esplicito: ci hanno isolato -ha detto- nessuno ci ha difeso.
Come ne usciremo? Già, ma a questo punto, e proprio sul più bello, siamo costretti a fermarci.
Trackback dal tuo sito.