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Giustizia per Maria Concetta: ultimo atto

Antonio Nicola Pezzuto il . Mafie

Maria Concetta CacciolaLa Corte di Cassazione ha scritto l’ultimo atto della triste storia di Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia, uccisa barbaramente a soli trentun anni. Maria Concetta era una ragazza bella, giovane e piena di vita, che sognava un’esistenza diversa da quella che i suoi familiari volevano imporle. Aveva avuto la sfortuna di nascere in una famiglia di ‘ndrangheta, quella dei Cacciola, legata e imparentata con i più potenti Bellocco. Cacciola e Bellocco, due nomi che pronunciati nella Piana di Gioia Tauro incutono rispetto e timore.

Si è così concluso il “Processo Onta” che prende il nome proprio  dall’onta che la giovane ragazza di Rosarno aveva arrecato alle potenti ‘ndrine calabresi. Un’onta che andava cancellata per sempre, bruciando quella bocca che aveva osato raccontare fatti importanti ai magistrati e alle forze di polizia. Sì, perché Maria Concetta è stata uccisa in un modo orribile, costretta a ingerire acido muriatico. Un eclatante e simbolico omicidio di mafia come stabilito nella sentenza della Corte d’Assise di Palmi, condivisa dalla Corte d’Assise d’Appello e confermata dalla Corte di Cassazione, pur non essendo ancora noto il nome dell’assassino.

Brutta storia quella di Maria Concetta, la cui voglia di vivere si scontrava con l’opprimente presenza della ‘ndrangheta. Una storia nella quale la povera Maria Concetta rischiava di venire descritta per sempre come una psicopatica che si è suicidata. Era, invece, una persona forte che voleva opporsi ad un sistema mafioso e per questo è stata uccisa.

Tutto ha inizio l’11 maggio 2011 quando Maria Concetta Cacciola, figlia di Michele Cacciola e Anna Rosalba Lazzaro e sorella di Giuseppe Cacciola, si recava presso la Tenenza dei Carabinieri di Rosarno. Approfittando della convocazione ricevuta per la notifica di un’informazione di garanzia nei confronti del figlio Alfonso Figliuzzi (indagato per il reato di guida senza patente), aveva espresso ai militari il desiderio di parlare di fatti riguardanti la sua famiglia e, in particolare, della sua condizione all’interno della stessa. Confidava poi ai Carabinieri che doveva andare via subito perché se i suoi parenti avessero scoperto che si stava intrattenendo in caserma a fornire dichiarazioni, l’avrebbero uccisa. I militari la invitavano a ripresentarsi il successivo 19 maggio in occasione dell’interrogatorio di garanzia del figlio.

Maria Concetta cominciava così a raccontare della sua vita in seno alla famiglia. Lei era sposata con Salvatore Figliuzzi, condannato in via definitiva nel “Processo Bosco Selvaggio” quale soggetto affiliato al clan Bellocco. Un matrimonio, come dichiarato dalla giovane donna, che non era più felice da tempo, già da prima che suo marito venisse arrestato. In una circostanza, in seguito ad un litigio avvenuto per motivi banali, l’uomo le aveva addirittura puntato contro una pistola. Ma in quelle famiglie esiste un codice d’onore che non prevede ribellioni a soprusi e ingiustizie e quando Maria Concetta racconta l’episodio in famiglia, manifestando la volontà di separarsi, il padre le risponde: «Questo è il tuo matrimonio, questa è la tua vita e così te la tieni».

Sopraffazioni pesanti quelle che doveva sopportare la ragazza. Picchiata dal padre e dal fratello aveva riportato la lesione di una costola. In quella occasione non fu portata neanche in ospedale, ma rimase tre mesi a casa dove venne curata da un medico amico di famiglia, zio del padre, che non stilò mai un referto. Maria Concetta aveva più paura del fratello che del padre. Riteneva, infatti, che le ire di quest’ultimo potessero essere placate dalla madre, mentre il fratello Giuseppe era un tipo particolarmente testardo che si era guadagnato il rispetto della popolazione.

Dopo i primi due incontri, i Carabinieri, resisi conto della delicata situazione che stava vivendo Maria Concetta, informarono i superiori che l’ascoltarono in data 23 maggio 2011 su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria.

I racconti degli investigatori parlano di una ragazza terrorizzata che temeva di essere uccisa ma, allo stesso tempo, determinata a collaborare con lo Stato abbandonando il suo ambiente familiare.

In data 25 maggio 2011 veniva ascoltata dai magistrati della DDA di Reggio Calabria che, valutando la gravità delle dichiarazioni della giovane donna e la delicatezza della situazione in cui viveva, decisero di trasferirla in una località segreta. Nella notte tra il 29 e 30 maggio 2011 Maria Concetta fu prelevata da Rosarno e portata in una struttura di Cassano All’Ionio dove cominciava la sua nuova vita come testimone di giustizia. Forniva così un prezioso contributo alle indagini svelando segreti in merito a fatti di sangue e consentendo agli investigatori di ritrovare due bunker. Purtroppo Maria Concetta, che era stata spostata a Genova in località protetta, non riuscì a sopportare la lontananza dai tre figli e riprese i contatti con la sua famiglia. Fu così che il 2 agosto 2011 i genitori della ragazza si misero in viaggio verso il capoluogo ligure dove riuscirono a prelevare la figlia per riportarla a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno, quando i Cacciola si erano fermati per fare una sosta a Cerredolo (in provincia di Reggio Emilia), gli uomini del Servizio di Protezione e del R.O.S., allertati da Maria Concetta, riuscivano a raggiungerli e a riportarla indietro. Dalle intercettazioni degli investigatori emerge che, durante il viaggio, la giovane donna aveva cominciato a riferire ai genitori il contenuto di alcune dichiarazioni che aveva reso ai magistrati, al che Michele Cacciola e Rosalba Lazzaro cominciavano a pressarla affinché ritrattasse tutto.

Sulla scena, a questo punto, irrompono due avvocati: Gregorio Cacciola, cugino di Michele Cacciola e Vittorio Pisani che, in questa storia, dopo essere stato condannato, collaborerà con gli inquirenti.

I due legali avevano il compito di convincere la ragazza a ritrattare per tutelare gli interessi delle famiglie mafiose che Maria Concetta stava accusando con le sue dichiarazioni. Tra i due la figura dominante è sicuramente quella di Gregorio Cacciola. Lo si evince dalla lettura degli atti giudiziari. Le pressioni della famiglia su Maria Concetta, affinché si mettesse in contatto con l’avvocato Pisani, diventavano sempre più forti. È a questo punto che durante una conversazione telefonica tra la ragazza e sua madre, veniva intercettata quella che si può definire la frase simbolo del processo: « O cu nui o cu iddi a stari» (Devi stare o con noi o con loro), intimava Rosalba Lazzaro alla figlia. O stai con noi o con lo Stato, insomma. Parole che fanno capire la dura realtà di alcuni contesti territoriali e, nello specifico, a quali pressioni fosse sottoposta la povera Maria Concetta.

Alla fine la testimone di giustizia capitolava e chiamava l’avvocato Pisani. Il suo rientro a Rosarno avveniva nella notte tra l’8 e il 9 agosto 2011.

Nel frattempo, però, dalle conversazioni intercettate emergeva lo stato d’animo che aveva la ragazza in quei giorni. In una telefonata, intercorsa il 6 agosto 2011, confidava alla sua cara amica Emanuela, alla quale era legata da reciproco e consolidato affetto, di vivere schiacciata tra la paura di essere uccisa al suo ritorno e il timore di non vedere più i suoi figli. La minaccia più ignobile che le veniva intimata, infatti, era proprio questa: «Torna o non vedrai più i tuoi figli». Un vero e proprio ricatto al quale la povera ragazza cedeva come estremo atto d’amore verso di loro, pur consapevole che al suo ritorno sarebbe stata uccisa.

“Io vorrei tornare a casa per i miei figli. I miei non me li hanno mandati perché loro hanno capito che se me li mandano io non ritorno più”. E quando Emanuela la invitava a pensarci su, Maria Concetta rispondeva: «Sono tre mesi che penso, penso…però la ruota mi gira sempre da una parte, ai figli. Chi me la fa fare a ritornare, se vivo un anno, un altro anno e mezzo».

Era consapevole, Maria Concetta, che al suo rientro a Rosarno sarebbero riprese le vessazioni perché i familiari le avrebbero nuovamente impedito qualsiasi contatto con l’esterno. E continuava a manifestare le sue preoccupazioni e le sue angosce all’amica del cuore: «Mi ha detto che mi perdonano che…basta che ritorno a casa che per loro sono perdonata…Io posso capire in questo momento che lo dicono…Che vuoi, a mio padre gli manco, a mia mamma gli manco, però io penso tempo ci vuole però…Loro lo fanno apposta per farmi tornare, hai capito? Questo è quello che mi spaventa, Emanuela». Quindi il richiamo a quel codice d’onore che caratterizza le famiglie mafiose come la sua e che tanto la terrorizzava: «Lo sappiamo queste cose come vanno nelle famiglie nostre, no?! Almeno nella mia famiglia». E poi la consapevolezza che una volta ritrattato quanto dichiarato ai magistrati, si sarebbe giocata la polizza sulla sua vita che a quel punto non avrebbe avuto più alcun valore: «Dice ritorna, ritorna…così ritratti tutte cose, quello che hai detto e quello che non hai detto, capito? Si sa le cose come vanno, no?».

La drammatica telefonata con l’amica Emanuela si chiudeva con ulteriori rassegnate affermazioni, di chi sapeva che andava incontro a un tragico destino: «Ti dico la verità a te come una sorella…io un poco mi spavento…io un poco mi spavento a ritornare, Emanuela, perché adesso…tu lo sai che questi fatti non te li perdonano, no? Me lo dicono tutti, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai l’hai fatto, il passo l’hai fatto…ti dicono che ti perdonano però che so nel cuore…mi spavento a ritornare, le cose sono delicate, le cose sono assai…già l’onore non lo perdonano, questa cosa poi gli è caduta più del fuoco e della fiamma».

Ormai aveva maturato la decisione che le costerà la vita, Maria Concetta. Arrivata a Rosarno veniva costretta, in data 12 agosto 2011, a registrare una ritrattazione delle dichiarazioni che aveva fornito agli inquirenti. Tutto avveniva nello studio dell’avvocato Cacciola, sotto la sua regia.

Ma stava male, Maria Concetta, e si era accorta dell’errore commesso.

«Ascolta cm posso uscire da sta cosa? Mi vergogno delle cose che ho detto». È il testo di un sms che la poveretta inviava il 13 agosto ad un uomo con cui aveva intrapreso una relazione.

E ancora, in un altro sms all’uomo, scriveva: «Pa prova a chiamare Gennaro spiegagli come è andata e gli dici che voglio rientrare». Gennaro è lo pseudonimo di un Carabiniere del R.O.S. di Reggio Calabria che per la donna era diventato un punto di riferimento.

Cominciano a questo punto tutta una serie di conversazioni tra Gennaro e Maria Concetta. Commovente è lo sforzo dell’uomo che cerca di strapparla all’atroce destino. «…Voi per qualunque comunicazione fate riferimento a questo numero qua, noi stiamo qua», affermava il Carabiniere in una delle conversazioni. E ancora: «Basta che uscite fuori dal cancello di casa e magari, insomma, cioè, ci sarà qualcuno ad attendervi… Fateci uno squillo, il tempo che noi partiamo da qua ci sarà un quarto d’ora. Voi l’abitazione, giusto?…».

Purtroppo, Maria Concetta, quello squillo, a Gennaro, non lo farà mai. Stretta tra il terrore di essere scoperta dai familiari: «Va bene, dai. Vediamo come posso fare qua, perché qua è difficile che c’è mio padre e mio fratello qua vicino…» e l’imprevisto di un malore alla figlia più piccola: «Eh, però… Aspettate. Adesso sto… Vi volevo fare una domanda. Siccome voglio aspettare an… voglio vedere un attimino le cose, perché c’è mia figlia che sta male, la… la seconda. Infatti non è cosa facile però… No, voglio vedere come va, perché sta facendo dei controlli e ho paura che… non si sente tanto bene. Aspetto due/tre giorni e vi richiamo». «… okay. A dopo signora, a dopo», rispondeva Gennaro il 18 agosto 2011.

Un dopo che purtroppo non c’è stato mai. Il 20 agosto 2011 Maria Concetta veniva ritrovata moribonda nella sua abitazione. A nulla è valsa la corsa presso il Pronto Soccorso di Polistena dove si constatava il suo decesso. È stata uccisa, Maria Concetta, con la ferocia tipica delle belve selvatiche. Non poteva suicidarsi una donna che tanti testimoni descrivono allegra, socievole e piena di vita. Era terrorizzata che le potesse accadere qualcosa ma voleva combattere. Non poteva di certo suicidarsi una donna che il giorno prima era stata dal parrucchiere e che teneva tantissimo alla cura del suo aspetto. Non poteva suicidarsi una donna che era controllata in maniera ferrea dai familiari e che, guarda caso, proprio in quei momenti era stata persa di vista. No, non poteva.

Ancor più vergognoso è quello che è successo dopo la morte della ragazza.

Il 23 agosto 2011, infatti, prima ancora che fossero celebrati i suoi funerali, i coniugi Cacciola depositavano presso la Procura di Palmi un esposto indirizzato al Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale di Reggio Calabria, al CSM, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, al Procuratore della Repubblica di Messina, al Comando Generale dei Carabinieri. All’esposto veniva allegata un’audiocassetta con la relativa trascrizione della ritrattazione che Maria Concetta era stata costretta a registrare e una sua lettera scritta quando aveva deciso di collaborare. Nell’esposto, in sintesi, c’era scritto che la figlia soffriva di “depressione psichica”; che i Carabinieri le avevano promesso “in maniera subdola” “una condizione di vita personale di assoluto vantaggio che in realtà poi si era rivelato un autentico inferno”; che negli ultimi giorni Maria Concetta aveva raccontato “tutto quello che le era accaduto, ivi compreso le dichiarazioni che ha rilasciato ai magistrati che l’hanno sentita, le forzature che lei si era inventata, anche su suggerimento degli stessi interroganti, nonché l’intenzione di ingraziarsi le simpatie dei magistrati”; che da quando era rientrata in famiglia la loro figlia aveva ritrovato la serenità, che la figlia era “fortemente condizionata dal suo stato psichico-depressivo per cui era stata convinta di poter intraprendere un’esistenza migliore di quella che viveva in cambio di una collaborazione di giustizia “che mai avrebbe potuto offrire essendo la stessa lontana da sempre da qualunque tipologia di collegamento e/o circuito criminale o delinquenziale che dir si voglia”. Sottolineavano che “la tragica vicenda in cui aveva perso la vita la figlia poteva essere riscontrata dalla viva voce della medesima”, ascoltando la registrazione dell’audiocassetta.

“Chiedevano infine agli inquirenti di fare piena luce sulla vicenda e di colpire i comportamenti passibili di rilevanza penale che avevano indotto la figlia a compiere un così grave atto di autolesionismo”.

Così, a tre giorni dalla sua morte, Maria Concetta veniva uccisa un’altra volta. Forse, ancora in modo più atroce. È questa la vera “Onta”, fare passare per pazza una ragazza forte, coraggiosa, piena di vita e gettare fango sul lavoro degli inquirenti.

In abbreviato erano già stati condannati Anna Rosalba Lazzaro a 4 anni e 10 mesi di carcere, a 6 anni e 6 mesi di reclusione Michele Cacciola e a 5 anni e 8 mesi Giuseppe Cacciola. I tre, come detto, sono rispettivamente madre, padre e fratello di Maria Concetta. Condannato a 4 anni e sei mesi di reclusione l’avvocato Vittorio Pisani che ha poi deciso di collaborare.

L’unico a scegliere di essere giudicato con il rito ordinario era stato l’avvocato Gregorio Cacciola. La Corte di Cassazione, con la sentenza emessa nel novembre 2017 e depositata lo scorso 12 gennaio con le relative motivazioni, lo ha condannato a quattro anni e otto mesi di carcere per i reati di favoreggiamento, violenza e minaccia; reati aggravati dall’aver agevolato la cosca Bellocco. I Giudici della Suprema Corte hanno annullato un capo d’imputazione, quello relativo alla violenza privata aggravata, per cui l’uomo ha beneficiato di un anno di sconto sulla pena che gli era stata inflitta lo scorso luglio dalla Corte d’Appello. Sulla storia di Maria Concetta Cacciola è stato ascoltato in Commissione Parlamentare Antimafia il Pubblico Ministero Giovanni Musarò che ha sostenuto l’accusa nel “Processo Onta”: «Maria Concetta era attendibile. Quando l’abbiamo ascoltata era terrorizzata. Le sue dichiarazioni hanno portato anche ad operazioni di polizia giudiziaria importanti. Le intercettazioni, registrate poco prima che tornasse a Rosarno e al suo rientro a Rosarno, sono veramente terribili, materia per una tragedia greca. Questa ragazza torna infatti a Rosarno consapevole di quello che sarebbe successo e che nel momento in cui avesse ritrattato le dichiarazioni sarebbe finita quella che lei chiama “la garanzia sulla vita”. Era una ragazza che non aveva mai commesso reati e non era indagata. In una telefonata terrificante con una sua amica dice: “So che succede. Io torno, mi fanno ritrattare e poi mi ammazzano, ma io ho paura a tornare, però devo farlo per i miei figli”. E succede esattamente questo, con la chicca che simulano un suicidio. La trovano morta per aver ingerito acido muriatico, che purtroppo è anche un gesto evocativo, cioè una fine che viene riservata ai collaboratori di giustizia, a chi parla troppo».

Molto interessanti sono anche le dichiarazioni del Pubblico Ministero Giovanni Musarò sulla campagna mediatica orchestrata dalla ‘ndrangheta: «Il collaboratore Vittorio Pisani ci ha parlato dei rapporti con la stampa. Non è mio interesse o abitudine fare polemiche però si è verificata una situazione molto particolare quando dicevano che Maria Concetta Cacciola si fosse suicidata il 20 agosto 2011. Qualche giorno dopo partì una campagna di stampa molto pesante su un quotidiano, L’Ora della Calabria. Erano degli articoli in esclusiva fatti per giorni e il titolo era: “Cronaca di un suicidio annunciato”. Veniva attaccata pesantemente la DDA di Reggio Calabria, il modo in cui era stata gestita e veniva pubblicato un esposto dei familiari in cui gli inquirenti venivano accusati di aver approfittato di una depressione psichica di Maria Concetta Cacciola, che poi si è accertato non essere mai esistita, di aver prospettato la possibilità di un futuro migliore se avesse reso una collaborazione che, come scrivevano in questo esposto, “mai avrebbe potuto rendere”. In dibattimento l’avvocato Pisani, sentito come collaboratore, ha raccontato che mentre redigevano questo esposto, l’avvocato Cacciola era in contatto con la stampa, non solo con L’Ora della Calabria, ma anche con La Gazzetta del Sud, con i due direttori ai quali preannunciava l’invio di questo materiale prima o in concomitanza con il deposito dell’esposto. Era appena morta una ragazza, che necessità c’era di alzare tutto questo polverone, non solo di fare l’esposto, che aveva la finalità di favorire quelli che erano stati accusati dalla Cacciola, ma addirittura di darlo alla stampa con questa cura per il particolare? L’avvocato Pisani in dibattimento ha detto chiaramente che il fine dei Cacciola era quello di utilizzare la stampa per delegittimare il modo in cui venivano gestiti i collaboratori di giustizia dalla DDA di Reggio Calabria in quel momento storico, che da quel punto di vista era particolarmente proficuo. La frase finale dell’esposto che loro depositano e poi danno ai giornalisti è una specie di monito: noi quali genitori (lo scrivono gli avvocati, ma lo firmano i genitori di Maria Concetta Cacciola) chiediamo che non succeda mai più che altre giovani ragazze vengano rapite e violentate psicologicamente (questo il senso), ma era chiaramente una cosa che andava oltre la vicenda Cacciola. Scrivevano che la figlia era depressa, cosa che non era vera, che non poteva sapere niente, e che quindi non aveva niente da raccontare. Quella era la parte dell’esposto chiaramente finalizzata a depotenziare le dichiarazioni  che aveva reso. C’è la finalità di disincentivare future collaborazioni, di renderle impopolari. Poi il tempo è stato galantuomo, anche se purtroppo la tragedia è rimasta».   

Ci sono storie speciali che toccano il cuore e coinvolgono emotivamente anche chi le racconta: quella di Maria Concetta è una di queste. Una storia simbolo di opposizione alla ‘ndrangheta sulla quale non deve mai calare l’oblio. Lo dobbiamo a Maria Concetta, al suo coraggio, al suo esempio e alla sua immensa voglia di vivere.

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