D’Alì in Cassazione
Domani approda dinanzi ai giudici della massima Corte il processo che vede imputato il senatore trapanese, ex sottosegretario all’Interno, di concorso esterno in associazione mafiosa. I contatti con i Messina Denaro. Il pg Gozzo ha impugnato la sentenza di prescrizione e assoluzione ma dice: “Ci sono le prove per condannarlo”. Libera costituita parte civile.
Domani la Cassazione dovrà decidere se far ripartire o chiudere il processo dove è imputato di concorso esterno in associazione mafiosa il senatore trapanese Tonino D’Alì (Forza Italia), confermando la sentenza di primo e secondo grado, e cioè prescrizione fino al 1994 e assoluzione, per insufficienza di prove, per il periodo successivo sino al 2011.
Dinanzi ai giudici della massima Corte si discuterà infatti, con la partecipazione delle parti civili, e tra queste quella dell’associazione Libera, il ricorso presentato contro la sentenza di appello dal sostituto della procura generale di Palermo, Nico Gozzo, che ne ha chiesto l’annullamento perché ritenuta “una sentenza illogica”. Il processo, svoltosi col rito abbreviato, ha visto, sia in primo grado che in appello, una analoga decisione: nel 2013 il gup Francolini ha dichiarato prescritto il reato sino al gennaio 1994 e ha pronunciato una assoluzione, con la formula che ha ricalcato l’insufficienza di prove del vecchio codice, per i fatti contestati sino al 2011; nel 2016 la stessa sentenza è stata pronunciata dalla Corte di Appello, presidente Borsellino, a latere Calvisi e Agate.
L’ex sottosegretario all’Interno comparirà dunque dinanzi agli ermellini con un pronunciamento andreottiano, nel senso che ripete quello che i giudici, Cassazione compresa, riservarono al più famoso senatore a vita e più volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Al centro del processo che arriva adesso in Cassazione ci sono i rapporti tra il senatore D’Alì e la famiglia mafiosa dei Messina Denaro, con don Ciccio, morto nel 1998, e suo figlio Matteo, latitante dal 1993 e inseguito da condanne definitive per stragi e omicidi, oggi processato a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, dove furono straziati dal tritolo mafioso il procuratore Paolo Borsellino e la sua scorta.
Per il pg Gozzo “D’Alì con piena coscienza e volontà ha favorito Cosa nostra per più di 20 anni”. Contestata dunque dal pg la motivazione dei giudici di appello che quasi quasi hanno definito solo casuale il verificarsi di alcune circostanze che vedevano le azioni del senatore D’Alì, come quella del trasferimento da Trapani, nell’estate del 2003, dell’allora prefetto Fulvio Sodano, coincidenti con i desiderata della mafia trapanese. Il processo ha visto come primo punto quello della cessione di un ampio spezzone di vigneto che D’Alì possedeva nella contrada Zangara di Castelvetrano dapprima ad un mafioso locale, Alfonso Passanante e poi, dopo non essere stata perfezionata la vendita, ad un prestanome dei Messina Denaro e di Totò Riina. Una vendita fittizia – hanno anche riconosciuto i giudici di primo e secondo grado – e che però per questo aspetto hanno applicato la prescrizione. D’Alì vende e poi restituisce 300 milioni di vecchie lire all’emissario di Messina Denaro, il gioielliere Francesco Geraci, ora pentito e che ha confermato la restituzione del denaro. Denaro che andava a ritirare a Trapani, ogni qual volta Matteo Messina Denaro glielo diceva, presso la sede della Banca Sicula, l’istituto bancario di proprietà della famiglia D’Alì, il cui cda era presieduto da uno zio del senatore, Antonio, uno degli iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli.
Era il gennaio 1994 e da lì a qualche mese il banchiere D’Alì si sarebbe candidato al Senato per la prima volta con Forza Italia. Il collaboratore di giustizia Giovanni Ingrasciotta, che Gozzo voleva sentire in appello, ha raccontato nell’istruttoria ai pm Guido e Tarondo che si occupavano dell’indagine, che per quella campagna elettorale a favore di D’Alì, Cosa nostra si mosse parecchio. Per i giudici manca la prova del patto politico mafioso, Gozzo però ha fatto notare che il patto con i mafiosi il senatore D’Alì lo aveva ancora prima della sua cosiddetta discesa in campo.
Ma mentre i giudici di Cassazione si apprestano a rileggere queste carte, proprio in queste ore da un provvedimento di confisca eseguito dai giudici di Trapani, contro un imprenditore indicato come vicino alla cosca mafiosa castelvetranese, Andrea Moceri, emerge che attraverso un paio di passaggi, un altro spezzone di terreno originariamente sempre di proprietà della famiglia D’Alì è finito sempre nelle mani dei Messina Denaro, ceduto, donato a quanto pare, dal genitore dell’imprenditore oggetto della confisca a Patrizia, sorella del latitante, dopo che questi lo aveva acquistato dai D’Alì. Una vendita che risalirebbe agli anni ’70 e dalla difesa del senatore D’Alì fanno sapere che nulla c’entra la famiglia D’Alì con quella vendita, a vendere furono altri latifondisti trapanesi.
Difficile davvero in questo scenario credere solo, come scrive Gozzo, a situazioni puramente casuali. Il magistrato ha evidenziato quella che a suo avviso è stata una prima erronea decisione dei giudici della Corte di Appello e cioè il rigetto della richiesta di riapertura del dibattimento per ascoltare alcuni testi d’accusa, e tra questi l’attuale dirigente della sezione Dia di Trapani, col. Rocco Lopane, il collaboratore di giustizia Giovanni Ingrasciotta e sopratutto il sacerdote Ninni Treppiedi, che per alcuni anni è stato vicino al politico e che successivamente ha reso dichiarazioni, in particolare rispetto al tentativo dell’allora sottosegretario all’Interno di ottenere il trasferimento da Trapani del dirigente del tempo della Squadra Mobile Giuseppe Linares, oggi direttore della Direzione Investigativa Antimafia a Napoli.
Ma nel suo appello il pg Gozzo fa riferimento anche alle vicende legate al trasferimento da Trapani nel 2001 dell’allora prefetto Fulvio Sodano, vicenda che giudiziariamente viene legata al tentativo di Cosa nostra di riappropriarsi di un’azienda confiscata, la Calcestruzzi Ericina, iniziativa che venne stoppata proprio da Sodano. Agli atti c’è anche un verbale reso proprio dal prefetto, nel frattempo prematuramente deceduto, dove Sodano rammenta uno scontro che proprio sul tema della Calcestruzzi Ericina, ebbe con il senatore D’Alì. Quest’ultimo lamentò a Sodano il suo interesse a favore dell’impresa confiscata “perché alterava il mercato”; di contro, ha evidenziato il pg Gozzo, D’Alì agiva per aiutare quella parte di mercato, quello della produzione del calcestruzzo, che indagini allora già in corso e successive dimostrarono essere “nelle mani della mafia trapanese”. Il pg Gozzo ha nuovamente sottolineato alla Cassazione l’importanza di riaprire il dibattimento per sentire l’ex dirigente della Squadra Mobile Giuseppe Linares (o acquisire in un nuovo giudizio di appello le sue dichiarazioni) ed il collaboratore di giustizia, l’imprenditore Nino Birrittella anche per alcune vicende legate a finanziamenti concessi al Consorzio Trapani Turismo e altri fatti legati all’intervento della mafia trapanese nel corso delle elezioni regionali del 2001.
Per il pg Gozzo i giudici di secondo grado, pur riconoscendo al contrario del gup nel primo grado di giudizio, l’attendibilità di dichiarazioni rese per esempio da don Treppiedi e dall’imprenditore Birrittella, hanno sottovalutato una serie di prove a cominciare proprio da quelle legate alla fittizia vendita del terreno di proprietà della famiglia D’Alì, ceduto al gioielliere di Castelvetrano Francesco Geraci ma di fatto finito nelle mani di Totò Riina attraverso i Messina Denaro che erano i campieri del senatore D’Alì. Questo in un periodo cruciale, ha evidenziato Gozzo, “era il 1994 e quel periodo fu segnato dalla prima candidatura al senato di D’Alì , sostenuto in quella campagna elettorale da Cosa nostra”.
Cosa nostra che si fece sentire quando le cose cominciarono a mettersi male per tutta una serie di indagini in particolare condotte dalla Squadra Mobile trapanese. Nel dicembre del 1998 con un telegramma, mai trovato, ma che addirittura anche i giudici di appello hanno ritenuto verosimile, dal carcere uno dei figli del capo mafia Vincenzo Virga, si lamentò del fatto che nonostante il sostegno garantito pativa il carcere: “tu sei là che ti diverti e io sono qua rinchiuso”.
Trackback dal tuo sito.