La piaga del traffico di essere umani e del crimine organizzato
Il 9 e 10 novembre 2017 l’Accademia pontificia delle scienze ha chiamato circa cento donne giudice, provenienti da ogni parte del mondo, a partecipare al «Summit of Women Judges and Prosecutors on human trafficking and organized crime». Pubblichiamo l’intervento della rappresentante per l’Italia e la Dichiarazione finale.
La dichiarazione finale -Women judges and Prosecutors on Human Trafficking and Organized Crime
Ringrazio la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali per l’opportunità che mi è data di condividere con un così qualificato uditorio la mia esperienza.
Partecipare a questo summit dedicato dagli organizzatori “alla piaga del traffico di essere umani e del crimine organizzato” con cento magistrate di ogni parte del globo è un onore, mi emoziona.
L’incontro delle giudici del mondo mira, attraverso lo scambio delle reciproche esperienze, a “ricercare nuovi modelli” e “valorizzare quelli già esistenti”.
Lunga la strada percorsa prima di questo incontro.
Una strada che segue le Risoluzioni dell’Onu e dell’Assemblea mondiale della sanità ma anche la Dichiarazione congiunta dei Capi religiosi contro la “schiavitù moderna” del 2014 ed il summit dei Sindaci delle principali città mondiali nel 2015 ed ancora l’incontro del giugno 2016 di giudici e giuristi, donne e uomini, provenienti da tutto il mondo. In tale incontro, dedicato al “traffico di organi e alla tratta di persone ai fini dell’espianto di organi”, intervenne Papa Francesco e, al termine dei lavori, tutti i partecipanti assunsero l’impegno di combattere tali crimini contro l’umanità, con comuni iniziative che coinvolgessero tutte le parti interessate.
Spero che anche al termine di questo incontro le cento giudici presenti vorranno prendere un impegno comune.
La povertà, la disoccupazione e la mancanza di opportunità socio-economiche, le discriminazioni per genere, razza o provenienza sono fattori che rendono le persone vulnerabili al traffico di esseri umani e, in generale, al crimine organizzato.
I poveri, indifesi e indigenti sono facili prede.
Un esempio ne è il fatto orribile accaduto in questi giorni a Torino, una fra le città italiane più accoglienti e solidali verso gli “ultimi”, un fatto già avvenuto in precedenza a Roma, Venezia e Palermo: per noia o solo per la banalità del male è stato dato fuoco ad un senzatetto che dormiva nei giardini pubblici.
Bruciare il povero sembra essere divenuto di moda, una moda che pone seri interrogativi.
Sgomenta che, all’espandersi della povertà “di strada” segua una sempre maggiore insofferenza verso i soggetti indigenti, che non si provi più compassione e solidarietà ma troppo spesso indifferenza, se non peggio.
Sgomenta che la loro criminalizzazione restituisca a chi è abbiente o anche solo abbia “lavoro-casa-famiglia”, comunque non sia caduto in povertà, l’immagine di un “diverso da sé” e lasci trasparire il pensiero di tale individuo non vale la pena preoccuparsi.
Si apre, per tale via, la strada alla violenza e si agevola l’attività della criminalità organizzata, sempre più aggressiva e sofisticata.
Occorre allora invertire la rotta.
Non è facile, il mondo è sempre più diseguale ed esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei Paesi e tali disparità sono in aumento.
Non esistono uguali opportunità per tutti.
L’unico modo per superare la situazione in atto è il dialogo, il confronto e la ricerca di strategie comuni per fronteggiare gli effetti della criminalità ma anche dei conflitti militari, etnici e religiosi che determinano crescenti instabilità in vaste aree del mondo, dando vita a migrazioni di popoli.
Una parte di questi flussi di “migranti” è giunta in Europa per cercarvi asilo, con la speranza di trovare un domani migliore, senza più miseria.
Si tratta, purtroppo, di flussi migratori governati da organizzazioni criminali per i quali i migranti sono “beni” da trasportare e… da usare.
Così il nostro mare Mediterraneo è divenuto insanguinato per le morti su barconi alla deriva.
Così troppo spesso si è appreso di bambini abusati, di donne violate, di persone uccise nei modi più brutali e, sempre e comunque, private della loro libertà e dignità.
È grave in Italia il fenomeno della “tratta delle donne” per la prostituzione.
Un fenomeno rilevante in chiave di emergenza, di criminalità organizzata, di ordine pubblico, che richiede interventi operativi e soluzioni immediate volte a debellarlo.
Un fenomeno che fa passare in secondo piano le domande sulla cultura, sulla storia e sul rapporto di “potere tra i sessi”, soprattutto quanto ai legami ambigui che la prostituzione ha con la “famiglia”, luogo di provenienza dei “clienti”.
Nel nostro Paese, da circa mezzo secolo, si è cominciato a discutere e a prendere coscienza della violenza che passa attraverso il corpo e la sessualità delle donne e tra gli interrogativi posti vi è quello del rapporto tra prostituzione e sfruttamento sessuale, quale negoziazione di sesso in cambio di denaro. Si segnala di recente anche in Italia un nuovo fenomeno, la cd. prostituzione allargata, quello di: “veline”, donne-immagine varie ed anche semplici lavoratrici-precarie cui viene chiesto di “sapersi vendere bene” entro un ambito lavorativo ove la seduzione è requisito necessario per trovare lavoro. La sessualità femminile è stata finora una sessualità di servizio e il corpo della donna un oggetto da possedere e da scambiare: la prostituzione − in qualsiasi forma − parlava sinora solo del desiderio e della sessualità e delle fantasie maschili. Non esistono dati recenti in tema ma può essere ricordato il Rapporto Onu del 2012 sulla “violenza di genere” in Italia, da cui si ricava che quanto alla rappresentazione delle donne nei media nel 2006: il 53% delle donne in Tv era muta e silenziosa, il 46% era associata a temi inerenti al sesso, alla moda e alla bellezza e solo il 2 % a temi sociali e professionali.
È grave in Italia il problema dei “bambini che arrivano soli” e poi scompaiono.
I dati dicono che, al 30 giugno 2017, le persone scomparse nel nostro Paese erano 47.946 (9.033 italiani e 38.913 stranieri), di cui il 70% minorenni (su 33.802: 2.167-6% quelli italiani e 31.635-94% quelli stranieri). Ed è molto preoccupante quanto indicato dalla Agenzia nazionale per l’accoglienza dei minori sugli allontanamenti dai Centri di accoglienza (8.811, di cui 8.372 stranieri e 439 italiani), ai primi posti il Sud e la Sicilia ma subito dopo il Nord e la ricca Lombardia.
Spesso, troppo spesso, quei bambini finiscono nelle mani dei trafficanti di organi o sono vittime di abusi sessuali o vengono costretti alla prostituzione.
È grave in Italia il fenomeno del lavoro minorile.
Secondo Save the Children e le Nazioni unite ci sono 340.000 casi nel nostro Paese di sfruttamento minorile e ben 28.000 sono coinvolti in attività pericolose, di notte e senza riposo.
Nel 2006 la legge italiana ha fissato a 16 anni l’età minima di accesso al lavoro ma egualmente nel nostro Paese il 7% dei minori tra i 7 ed i 15 anni è coinvolto nel fenomeno ed il numero cresce tra gli adolescenti nel passaggio dalla scuola media a quella superiore. In Italia abbiamo uno dei tassi maggiori di dispersione scolastica in Europa (18,2 %). Dal Rapporto mondiale sul lavoro minorile 2015 di Ilo-Unicef-Banca mondiale Understanding children’s work emerge che un bambino costretto a lavorare prima del tempo avrà il doppio delle difficoltà dei suoi coetanei ad accedere ad un lavoro dignitoso in età più adulta e che correrà più rischi di rimanere ai margini della società, in condizioni di sfruttamento. La disaffezione scolastica e il lavoro minorile possono spingere il minore a compiere attività illecite e finire nelle mani della criminalità organizzata.
È grave in Italia il fenomeno del lavoro nero nelle mani della criminalità organizzata, quello che chiamiamo del “caporalato” nell’agricoltura e nell’edilizia. Consiste nel reclutamento da parte di organizzazioni criminali di lavoratori poi trasportati sui campi o in cantieri edili a disposizione di un’impresa. Si tratta di persone deboli e in grande difficoltà economica o immigrati irregolari, senza permesso di soggiorno, che vengono pagati pochissimo e fanno lavori con turni lunghi e faticosi ed in luoghi ove spesso subiscono maltrattamenti, violenze (anche, purtroppo, sessuali nei confronti delle braccianti, da ultimo in Sicilia nel 2016) od intimidazioni. Un esempio recente. A fine estate, in Calabria, vi sono stati due arresti per sfruttamento del lavoro nero, con l’aggravante del razzismo, in una azienda agricola ove lavoravano migranti africani, romeni e indiani e ove la paga giornaliera variava in base al colore della pelle: i bianchi prendevano 10 euro in più degli altri, 35 euro al giorno contro i 25 dei neri. Il Parlamento italiano il 18 ottobre 2017 scorso ha approvato una legge contro il “caporalato” che contiene specifiche misure per i lavoratori stagionali in agricoltura ed estende responsabilità e sanzioni per i “caporali” ma anche per gli imprenditori che li utilizzano, si tratta di una importante risposta legislativa ad una grave piaga sociale.
Italia: “donna e lavoro”, non è un Paese per donne.
I dati dell’Istat e dell’Inail, documentano certo l’aumento della partecipazione della donna al mercato del lavoro (tre milioni in più rispetto a 35 anni fa ed ora il 48,2% della popolazione) ma mostrano un dato incontrovertibile: una donna su due non lavora. In Sicilia, addirittura, lavora solo il 27% delle donne, le quali raramente vengono messe in condizioni di competere con gli uomini o percepiscono lo stesso stipendio. Le colpe sono diffuse ma, forse, le maggiori responsabilità sono quelle del sistema-Paese che non valorizza la donna e che non attua quote di genere. I dati dell’Oecd (Osce), rielaborati dall’Economist, mostrano come l’Italia sia uno dei peggiori Paesi per essere una lavoratrice, secondo diversi parametri: accesso all’educazione superiore, partecipazione, forza lavoro, retribuzione, maternità. È vero che progressivamente la distanza tra uomini e donne nei salari si sta riducendo ma senza un intervento normativo di riequilibrio forzoso occorreranno non meno di settanta anni, secondo studi della Banca di Italia, per raggiungere una situazione di uguaglianza. L’efficacia delle “quote di risultato” è dimostrata dai risultati ottenuti nei Paesi nordici europei e di recente in Italia con la legge Golfo Mosca del 2011 nei Consigli di amministrazione delle società quotate in borsa o in avvocatura nel Consiglio nazionale forense, tuttavia il problema delle lavoratrici permane ovunque nei ruoli apicali e manageriali: le donne vengono promosse meno e con più difficoltà degli uomini, raramente occupano posizione di rilievo nella struttura aziendale, questo avviene anche in magistratura. Nel nostro Paese l’incremento dei conferimenti per gli incarichi direttivi (soprattutto nell’ultimo biennio), secondo dati del Csm, è avvenuto quasi solo nei ruoli specializzati, gli uffici minorili e della sorveglianza mentre tuttora grave è la situazione negli uffici inquirenti, nella suprema Corte di cassazione (ove nessuna donna è stata mai nominata primo presidente) e nel Consiglio superiore della magistratura. Il Csm oggi è composto da una sola magistrata a fronte di 15 uomini togati e, dall’istituzione, vi è stato eletto solo il 5% delle giudici (n. 23, in totale). In maggio 2017 è stato presentato alla Camera dei deputati la proposta di legge n. 4512-17, Ferranti e 57 altri sottoscrittori, per un primo riequilibrio di genere: una legge che speriamo possa concludere l’iter parlamentare prima dello scadere della legislatura e in tempo per le elezioni Csm del 2018.
Mutare la cultura, che limita la crescita della donna, è importante.
Mantenere la disuguaglianza e la sotto-rappresentazione delle donne genera disparità e non consente di superare il diffuso pensiero di disvalore verso il femminile, un pensiero che, purtroppo, talora genera anche gravi fatti criminali sia nel lavoro che nei rapporti sociali ed in quelli familiari, come attestano i dati annuali sulla violenza di genere, mobbing, stalking e femminicidi.
I cambiamenti sociali e culturali avvengono solo quando i valori escono dalle nicchie (per quanto grandi) e contagiano chi è disattento.
È un lavoro sottile, a volte sotterraneo, di certo oggi aperto.
Un lavoro che cerca e apre dialoghi tra classi sociali, tra i movimenti, tra idee contrapposte, tra donne e uomini.
Papa Bergoglio nel corso del 2017 ha posto al proposito la necessità di una vera e propria rivoluzione culturale ove «… la Chiesa, per prima, deve fare la sua parte “riconoscendo con sincerità e umiltà”… i ritardi e le mancanze. Le forme di subordinazione che hanno tristemente segnato la storia delle donne vanno definitivamente abbandonate. Un nuovo inizio deve essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può farlo una rinnovata cultura dell’identità e della differenza».
È tempo che le donne “partecipino” parimente in campo politico, sociale e nel lavoro.
È importante che le donne possano fare sentire la loro voce.
È importante che l’Accademia pontificia abbia voluto ascoltare oggi la voce di cento giudici del mondo, la nostra voce.
Giudici e “traffico di esseri umani” e “crimine organizzato”
La magistratura da tempo è attenta in Italia alle necessità di tutela delle persone vulnerabili dal “traffico di esseri umani” e dal “crimine organizzato”, ma molto ancora può essere fatto.
Un maggiore cambiamento può essere raggiunto attraverso il confronto reciproco, entro e fuori i nostri diversi Paesi o le nostre mura, ascoltando e mescolando le reciproche esperienze, soprattutto lavorando “in rete”.
Vedere quanto è intorno a noi per costruire una società diversa, improntata non solo al vantaggio individualistico, è possibile.
Vedere l’altro e riconoscere all’altro il suo “diritto di avere diritti”, il suo essere non solo un individuo ma persona, permette di acquisire chiara consapevolezza dei problemi che affliggono l’attuale società ove viviamo e di affrontarli.
La scuola certamente è una prima risposta per la crescita culturale ma anche la giustizia può dare il suo contributo.
Può darlo, non solo come avviene punendo severamente le organizzazioni criminali che trafficano sugli esseri umani, ma anche attraverso l’organizzazione di gruppi specializzati di pubblici ministeri o mediante direttive alla polizia giudiziaria o attraverso la firma di protocolli di intesa per migliorare i circuiti comunicativi con le altre autorità giudiziarie (giudicanti e requirenti) per la tutela dei soggetti deboli e vulnerabili od anche protocolli di pronto intervento con i servizi sociali territoriali o per le fasi esecutive dei provvedimenti giudiziari.
Molto può essere fatto nell’esecuzione della pena ed in ambito detentivo, ove interverranno presto i decreti attuativi della riforma penitenziaria del Ministero della giustizia (ora in fase di approvazione) che contengono criteri per incrementare le opportunità di lavoro, valorizzare il volontariato, mantenere le relazioni familiari (anche attraverso l’utilizzo di collegamenti via Skype), riordinare la medicina penitenziaria, riconoscere il diritto all’affettività, agevolare l’integrazione dei detenuti stranieri, rafforzare la libertà di culto e, non da ultimo, garantire maggiore tutela delle donne in detenzione e delle detenute-madri.
Ed ancora molto può essere fatto dando attuazione negli uffici giudiziari alla previsione di attività di “giustizia riparativa”, quale momento qualificante del percorso di recupero sociale, sia in ambito carcerario che nell’esecuzione delle misure alternative.
Molto soprattutto può essere fatto laddove la giustizia sia aperta alla società civile ed il cittadino la senta vicina e possa accedervi: un modo di recente attuato è stato quello dell’apertura di “sportelli violenza” dentro i palazzi di giustizia: un luogo ove il soggetto debole e vulnerabile può trovare prime risposte “neutre” su cosa-come-dove e chi rivolgersi qualora viva in situazioni di violenza e voglia uscirne (il primo è stato aperto nel 2013 a Brescia). Un altro può essere ancora quello di concreta attuazione, anche in questo con l’apertura di sportelli negli uffici giudiziari, alla Direttiva europea del 2016 per le vittime di reato.
Una giustizia che divenga dunque capace di lavorare “in rete”, con enti ed associazioni locali e la società civile, e di cooperare con gli organismi internazionali.
Un modo, non da ultimo, che attua in concreto il versetto ricordatoci dagli organizzatori del summit del Vangelo di Marco 9.50: «Buona cosa il sale. Ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale con voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri».
Nota: Al summit hanno partecipato quasi cento donne giudici provenienti da ogni parte del mondo. Nei loro interventi, talora molto sofferti, sono stati illustrati nel corso delle due giornate del summit le esperienze, soluzioni e “best practices” adottate nei singoli Paesi del globo.
Al termine dei lavori le magistrate hanno poi nella maggioranza sottoscritto una comune “dichiarazione finale” (testo in inglese e spagnolo, lingue ufficiali del summit) assumendo l’impegno di combattere tali crimini e per fare definire la “tratta” crimine contro l’umanità, oltre ulteriori significativi e rilevanti comuni intenti, alcuni anche in chiave di genere.
Il link al video della prima giornata
Il link al video della seconda giornata
*consigliere della Corte di appello di Brescia
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