Aemilia: il racconto del radicamento della ‘ndrangheta cutrese
Dopo una breve pausa, sono riprese le udienze del processo Aemilia, nell’aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia, l’8 gennaio, con una testimonianza molto attesa: quella dell’esperto di mafie Enzo Ciconte.
Il docente di storia della criminalità organizzata parla dei mafiosi come “portatori di violenza”: per capire di avere a che fare con un mafioso non c’è bisogno che ci sia una pistola sul tavolo, afferma rispondendo alle domande del Presidente della Corte dei Giudici Caruso. A volte, infatti, il metodo mafioso si sviluppa senza violenza, “sapendo però che il soggetto è portatore della violenza e potrebbe tirare fuori la pistola”. E’ il concetto che sta alla base della forza di intimidazione di cui spesso abbiamo scritto parlando dei processi di mafia.
Ciconte parla anche del fatto che molti, troppi, abbiano avuto una “idea bislacca” secondo la quale al Nord non c’erano le mafie. “Quante autorità hanno sostenuto che la mafia non c’era? E che il problema era di quei terroni che hanno rotto le scatole e sono venuti qui”. La causa è dovuta, secondo l’esperto, alla corazza protettiva che si riteneva essere l’antidoto alle mafie, ma che invece è stata la causa del radicamento di esse: i soldi.
La ricchezza dell’Emilia Romagna e del Nord ha tranquillizzato la maggior parte della popolazione che per tanto tempo – e ancora adesso, aggiungerei – si sente immune da un radicamento vero e proprio. Anche perché al Nord, “se un mafioso non vuole farsi vedere, non si fa vedere”. E quindi sta a noi, a ognuno di noi, cogliere quei segnali che possono essere indice di una presenza mafiosa: un negozio sempre vuoto ma che riesce comunque a restare aperto, ad esempio.
Ma parla anche di aspetti positivi, Enzo Ciconte, rispondendo a una domanda di Francesco Caruso che gli chiede com’è possibile che una realtà che ha combattuto il nazifascismo si ritrovi in una situazione del genere. “Per quanto sia forte la presenza delle mafie in Emilia Romagna – risponde – non può essere paragonata a quella della Lombardia e del Piemonte. Qui una resistenza c’è stata: in questi anni sono stato chiamato dai sindacati, da Libera, dai Comuni. In tutti questi anni si è seminato e i risultati ci sono. Altrimenti avreste fatto questo processo in un isolamento sociale che invece non c’è”.
Viene in mente, a questo proposito, una parte del discorso fatto da Nino Di Matteo in occasione della cittadinanza onoraria che gli è stata conferita a Bologna nel novembre del 2015. Il magistrato, parlando di una città che è medaglia d’oro militare per la resistenza al nazifascismo e medaglia d’oro civile per il comportamento assunto dalla cittadinanza a seguito dell’attentato del 2 agosto 1980, ha affermato che “oggi deve essere prioritaria una nuova forma di Resistenza per vincere una nuova e particolarmente insidiosa e pericolosa guerra di liberazione, una guerra di liberazione contro le mafie, contro la mentalità mafiosa, contro la diffusione di questa mentalità anche nell’esercizio del potere.
Una guerra di liberazione contro la corruzione, contro le lobby, le massonerie, il predominio del concetto di appartenenza rispetto al merito, l’illegalità diffusa che a tutti i livelli sta progressivamente erodendo e sfaldando come un cancro il tessuto sociale del nostro Paese, una guerra di liberazione contro la rassegnazione a convivere con quei fenomeni criminali.
Tutti, ciascuno con il suo ruolo e le sue capacità, abbiamo il dovere di promuovere e sviluppare questa nuova forma di resistenza e liberazione, per coltivare il sogno di una rivoluzione culturale, che partendo dai giovani riesca a restituire al nostro Paese il fresco profumo della libertà, della solidarietà, di una democrazia reale, frutto compiuto di un percorso di giustizia e di verità”.
Ancora una volta, quindi, il compito è nostro. Nostro come cittadini, nostro come professionisti, anche se gli ambiti che competono a ciascuno di noi sono diversi. Questo soprattutto tenendo presente “l’evoluzione del comportamento mafioso” di cui parla Ciconte durante la sua deposizione come testimone nel maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana. E in Emilia Romagna il simbolo di questa “progressione” è lo scioglimento del Comune di Brescello. Ma tanti altri sono i casi, a partire dalla capacità di condizionamento, che coinvolge anche l’informazione. Durante la testimonianza si parla proprio di “tendenza ad utilizzare i giornalisti per fare determinate azioni”. Ciconte si riferisce, evidentemente, a Marco Gibertini, condannato nel secondo grado dei riti abbreviati di Aemilia a 9 anni e 4 mesi per avere dato mediaticamente voce alle ragioni degli ‘ndranghetisti.
Ma gli esempi positivi, di giornalismo vero, non mancano: vengono fatti i nomi di Giovanni Tizian e Sabrina Pignedoli.
Esempi positivi che, ancora una volta, ci ricordano quanto importante sia scrivere, raccontare la verità.
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