Mafia, blitz contro le impunità
Castelvetrano, trenta indagati: “proteggono il latitante Matteo Messina Denaro”
Matteo Messina Denaro, il boss mafioso ricercato dal 1993 e che oggi è l’erede degli spietati boss mafiosi di Corleone, continua a governare il suo territorio natio, quello di Castelvetrano. Una città, nel centro della Valle del Belìce, dove vive una sistema fatto di diffusa illegalità, dove tanti sono convinti che il capo mafia fa del bene al contrario dello Stato. E così accade che soggetti arrestati e condannati e nel frattempo ritornati liberi, assieme ad altri soggetti fino ad ora rimasti solo sospettati e sfiorati dalle indagini antimafia, siano convinti che l’impunità garantita dal boss latitante sia qualcosa di intoccabile e intangibile. E invece non è così.
Lo Stato ha deciso di far sentire la propria voce, ha mosso i suoi uomini ed ha colpito a fondo. Stavolta senza ricorrere ad arresti e sequestri, ma agendo con l’andare a colpire illegalità più o meno grandi, dal commerciante irrispettoso delle più semplici norme, all’imprenditore arricchitosi con il sostegno di Cosa nostra. Trenta perquisiti e rivoltati da testa a piedi nel giro di alcuni giorni. Qualcuno si è dimostrato essere custode di una mezza polveriera di armi e munizioni.
La mafia di Messina Denaro è oramai la mafia dei borghesi e dei colletti bianchi, ma nel suo retrobottega restano i mafiosi pronti a sparare. Un blitz condotto nel corso dell’ultima settimana da oltre 130 poliziotti dello Sco, il servizio centrale operativo, e delle Squadre Mobile di Trapani e Palermo, che vi raccontiamo così.
L’operazione ha avuto il suo culmine nella giornata di giovedì 14 dicembre. I poliziotti hanno eseguito ordini di perquisizione firmati dal procuratore antimafia di Palermo Francesco Lo Voi e dal suo aggiunto Paolo Guido, che coordina le indagini contro la mafia trapanese. Le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nelle abitazioni e nei possedimenti di 30 persone, tutte residenti a Castelvetrano. Reato contestato: quello della “procurata inosservanza di pena” aggravata dall’art.7, ossia il favoreggiamento all’organizzazione criminale Cosa nostra. Durante le perquisizioni condotte nell’ultima settimana e culminate nella odierna giornata sono stati sequestrati infatti 25 fucili, una decina di rivoltelle e pistole automatiche, circa 2 mila munizioni. Questi i nomi delle persone coinvolte: Biagio, Giovanni Cappadonna gemelli di 51 anni, Vito Cappadonna, 55, Vito Circello, 62, Santo Clemente, 44, Andrea Craparotta, 54, Calogero Curseri, 50, Cosimo Cuttone Di Carlo, 50, Matteo Filardo, 49, Giovanni Furnari, 72, Tommaso Geraci, 63, Michele Giacalone, 69, Calogero Giambalvo, 41 (il consigliere comunale intercettato a fare gli elogi ai boss Messina Denaro), Leonardo Ippolito, 62, Antonino Italiano, 50, Giovanni Madonia, 52, Leonardo Masaracchio, 61, Nicola Messina Denaro, 55, Michele Pacella, 55, Gaetano Pavia, 27, Giovanni Rollo, 72, Giovanni e Vincenzo Santangelo, 77 e 67 anni, Gaspare Varvaro, Nicolò Venezia, di 49 anni.
Su Matteo Messina Denaro pesao vari ergastoli per stragi e delitti. L’ultimo processo che lo vede imputato è quello che si sta svolgendo a Caltanissetta, dove è alla sbarra con l’accusa di essere il mandante della strage mafiosa di via D’Amelio a Palermo, dove il 19 luglio del 1992 persero la vita il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e dei suoi cinque agenti della scorta. Il tritolo per via D’Amelio arrivava da Trapani, Messina Denaro se lo fece consegnare dal capo mafia Vincenzo Virga, ed era lo stesso tritolo usato per la strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985 e per il fallito attentato all’Addaura del 1989 contro Giovanni Falcone.
I soggetti oggi perquisiti sono stati nel corso degli anni arrestati per mafia, o hanno avuto collegamenti e frequentazioni con appartenenti a “Cosa nostra”, persone che, storicamente, sono state in stretti rapporti con il latitante Matteo Messina Denaro. Ora la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, su segnalazione della Polizia di Stato, li ha sottoposti a una nuova indagine perché sospettati di agevolare o continuare ad agevolare la latitanza del capomafia della provincia di Trapani. Ma non solo. Sarebbero gli appartenenti alla nuova Cosa nostra, la cosidetta “Super cosa” che fu inventata da Totò Riina prima del suo arresto nel 1993 e poi consegnata nelle mani di Matteo Messina Denaro. La “Super cosa” che custodisce i segreti relativi alla stagione delle stragi del 1993 e dunque tutto quello che accadde nella “trattativa” tra la mafia e lo Stato a metà degli anni ’90.
Spiega il capo dello Sco Alessandro Giuliano: “Sono 30 personaggi , già a noi ben noti, alcuni già arrestati e condannati, altre volte denunciati, oggi indagati per procurata inosservanza di pena aggravata dalle finalità mafiose”. Una azione concepita per dare fastidio al latitante, “e per fare capire al territorio che quel latitante dà fastidio, immaginiamola come un valore aggiunto al fianco delle indagini classiche” dice il capo della Mobile di Trapani Fabrizio Mustaro. Il messaggio è chiaro: “Tolleranza zero – dice ancora Mustaro – verso coloro che sono vicini alla famiglia mafiosa e quindi al latitante”. “Il latitante – sottolinea Vincenzo Nicolì, vice di Giuliano allo Sco – ha impresso sul territorio il marchio della impunità, i controlli eseguiti, (il circolo del dopo lavoro ferroviario, per esempio, è risultato occupare abusivamente un locale della stazione con spese di energia elettrica a carico della società ferroviaria e nessuno si era mai accorto di nulla ndr) dimostrano che lo Stato è presente e le impunità non sono consentite”.
Perquisiti anche commercianti usi a comportamenti di profondo rispetto per i familiari del boss ai quali offrivano la quotidiana spesa. I nomi degli indagati non sono frutto di una azione estemporanea, ma sono stati presi dal report investigativo scritto e sempre aggiornato dai poliziotti della Squadra Mobile trapanese, quelli cresciuti con due eccellenti investigatori come Rino Germanà e Giuseppe Linares, i poliziotti che per primi hanno “scoperto” chi era Matteo Messina Denaro quando ancora questi era incensurato e che, nel corso del tempo, lo hanno poi via via ritrovato in omicidi, scandali, corruzioni e l’appaltopoli di Cosa nostra trapanese. Quella appaltopoli dentro la quale sono stati trovati gli intrecci tra la mafia, la politica e l’impresa.
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