D’Alì: chiesti cinque anni di obbligo di soggiorno
Questa la richiesta del pm Padova contro l’ex sottosegretario all’Interno D’Alì (Forza Italia). L’opposizione della difesa
È alle battute finali dinanzi al Tribunale delle Misure di Prevenzione di Trapani, presidente giudice Notari, il procedimento contro il senatore trapanese Tonino D’ALì, Forza Italia, ex sottosegretario all’Interno. Il pm della Procura antimafia di Palermo Pier Angelo Padova ha insistito per l’applicazione di cinque anni di obbligo di soggiorno per il parlamentare trapanese, ripercorrendo l’atto di accusa che la Procura di Palermo ha depositato lo scorso luglio e al quale si sono aggiunti altri faldoni, come i procedimenti che hanno riguardato alcuni imprenditori trapanesi indagati per aver fatto parte di un cosiddetto “cerchio magico” dove mafia, politica e impresa sono stati per decenni, nel trapanese, in stretto contatto.
Un politico, D’Alì, per i pm della Dda palermitana “socialmente pericoloso”. L’atto di accusa è pesante. La Procura antimafia di Palermo scavando nel tempo ha tirato fuori elementi inequivocabili sui rapporti tra l’ex sottosegretario all’Interno, il senatore di Forza Italia Tonino D’Alì, e la famiglia mafiosa dei Messina Denaro di Castelvetrano, sia con Francesco – il patriarca della mafia belicina morto, in latitanza, nel 1998 – che con l’erede del boss: l’attuale superlatitante Matteo, 55 anni, ricercato dal 1993. I Messina Denaro erano ufficialmente i campieri nei terreni di Castelvetrano posseduti dalla famiglia D’Alì, ma i rapporti sarebbero stati ben altri. Sono stati essenziali per la sua prima candidatura al Senato nel 1994, secondo il racconto, per esempio, del collaboratore di giustizia Giovanni Ingrasciotta, che per puro caso sfuggì ad un agguato mortale organizzato da Matteo Messina Denaro. La mafia si adoperò molto secondo Ingrasciotta per sostenere D’Alì al debutto elettorale nel 1994. L’intervento del pm Padova ha preso spunto dalle sentenze dei due processi dove l’ex sottosegretario era imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, pronunciate il 30 settembre 2013, in primo grado e quella di secondo grado, le cui motivazioni sono state depositate nel dicembre dell’anno scorso. Pronunciamenti identici nelle conclusioni, D’Alì ha ottenuto la prescrizione del reato sino al gennaio 1994 e l’assoluzione per il periodo successivo, sino al 2011.
La prescrizione del reato pesa già particolarmente nel procedimento per le misure di prevenzione, ma l’assoluzione, solo per insufficienza di prove, contiene per la Dda di Palermo elementi che proverebbero “la pericolosità sociale” e cioè i contatti costanti con l’organizzazione mafiosa da parte del senatore D’Alì. Emerge infatti la figura di un “politico a disposizione” di quel “cerchio magico” di affari e Cosa nostra. Non è cosa da poco, per esempio, l’ipotesi di accusa che gira sui contatti che D’Alì avrebbe avuto con l’imprenditore valdericino Tommaso “Masino” Coppola, condannato in via definitiva per essere stato il “regista” di appalti pilotati. Coppola fu intercettato in carcere mentre incaricava il nipote di prendere i contatti con l’entourage del senatore D’Alì per ricordare l’impegno che lo stesso senatore avrebbe assunto con lui a proposito delle forniture per i lavori al porto di Castellammare del Golfo. Ma tra le carte d’accusa anche i rapporti investigativi della squadra Mobile di Trapani ai tempi in cui i poliziotti, diretti dall’odierno capo della Dia di Napoli Giuseppe Linares, indagavano sulla nuova cupola mafiosa trapanese, quella capeggiata dall’imprenditore di Paceco Francesco Pace. Pace è l’imprenditore che, intercettato, si scoprì essere bene informato sulle decisioni circa il trasferimento da Trapani, nel luglio del 2003, del prefetto Fulvio Sodano, decisione che davvero prese il Consiglio dei ministri, all’epoca in cui a presiederlo era Silvio Berlusconi e D’Alì ne faceva parte quale sottosegretario all’Interno.
Ma Pace veniva anche intercettato mentre parlava di una iniziativa legislativa che D’Alì avrebbe promesso, per rivedere le norme su sequestro e confisca di beni. In questo scenario sono state inserite le dichiarazioni dell’imprenditore Nino Birrittella, facente parte della “cupola” mafiosa di Trapani e che ha parlato dei rapporti tra Cosa nostra trapanese e D’Alì, l’intesse elettorale e ancora appalti per i quali sono state preferite le imprese della corda mafiosa locale: D’Alì avrebbe contribuito alla strutturazione di Cosa nostra trapanese, passando dai rapporti con Messina Denaro a quelli con i trapanesi Vincenzo Virga e Francesco Pace.
L’atto di accusa contro D’Alì fa anche riferimento al contributo testimoniale arrivato dal sacerdote Ninni Treppiedi, il cui contributo si è sviluppato all’interno dei procedimenti penali contro lo stesso senatore e, al contrario di quanto accaduto col giudice di primo grado, nella sentenza di appello la testimonianza di padre Treppiedi è stata valorizzata e ritenuta attendibile. Certi racconti fatti dal sacerdote e risalenti ad un periodo in cui tra i due c’era reciproca fiducia, hanno riscontrato episodi eclatanti, come quelli relativi agli affari “segreti” della Banca Sicula, la Banca della famiglia D’Alì, oggetto negli anni ’90 di un rapporto investigativo dell’allora capo della Mobile Rino Germanà, e dove lavorava come preposto Salvatore Messina Denaro, figlio e fratello dei padrini don Ciccio e Matteo.
Salvatore Messina Denaro è stato arrestato e condannato per l’appartenenza all’associazione mafiosa. Nel procedimento hanno fatto ingresso le trascrizioni delle intercettazioni fatte in carcere e che hanno avuto come oggetto il capo mafia palermitano Giuseppe Graviano. Questi discutendo con un altro detenuto, Umberto Adinolfi, ad un certo punto ha anche fatto riferimento ai rapporti tra D’Alì e Matteo Messina Denaro, aggiungendo alle parole anche una certa mimica delle mani (i colloqui sono stati video ripresi) sovrapponendo due dita di una mano, come a dire che D’Alì e Messina Denaro sarebbero un’unica cosa: «Questo e quello che cercano sono come…». Guarda il suo compagno di ora d’aria e intreccia due dita. L’immagine è stata ripresa dalla telecamera della Dia. Per la Dda di Palermo D’Alì sarebbe lo snodo di tanti affari della mafia siciliana, anche potrebbe essere lui il crocevia dei legami tra mafia e massoneria.
D’Alì ha sempre negato l’appartenenza alle logge, al contrario dello zio omonimo, morto da qualche anno e che era uno degli iscritti alla P2 di Licio Gelli.La difesa, avv. Arianna Rallo, ha cominciato a parlare nell’udienza di oggi e continuerà il 25 gennaio del prossimo anno. Ovviamente la difesa smentisce i punti di accusa introducendo prove che sostengono il contrario. A fine gennaio prossimo i giudici andranno in camera di consiglio per decidere se accogliere o meno la richiesta della Dda di Palermo. Sempre a fine gennaio ma a Roma, in Cassazione, è stata fissata l’udienza per decidere sul ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza di appello.
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