Mafia Capitale: ecco le motivazioni del primo grado
3200 pagine. Le motivazioni della sentenza del processo ai 46 imputati del principale procedimento legato a Mafia Capitale sono arrivate oggi. Pagine in cui i giudici della decima sezione penale del tribunale di Roma hanno messo nero su bianco che nella consorteria romana non è stata individuata la mafiosità. Anzi, neppure “alcuna mafiosità derivata da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose” per i due gruppi criminali che, capeggiati da una parte da Massimo Carminati e dall’altra da Salvatore Buzzi, hanno condizionato pesantemente dal punto di vista economico e politico Roma.
Per i giudici, quindi, corruzione sì, mafia no.
Intanto perché con l’espressione “precedenti o concomitanti formazioni criminose” che avrebbero dovuto trasmettere il carattere della mafiosità ci si riferisce in primis alla Banda della Magliana, che mai è stata dichiarata mafiosa. E si legge poi nelle carte: “non è possibile stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina e l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici” perché, sebbene il gruppo avesse “operato nella città di Roma, ramificandosi pesantemente sul territorio, oltre 20 anni orsono, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 90” e avesse “realizzato la coalizione tra bande criminali, costituendo un unicum nella storia della città, solitamente pervasa – forse per strutturale incapacità organizzativa – da una pluralità di realtà criminali tra di loro intersecantesi e talora aspramente confliggenti”, è da considerarsi “tuttavia un gruppo ormai estinto”. E non basta. Si legge meglio ancora: “Non può affermarsi che Carminati ed il gruppo da lui comandato (inteso, secondo l’accusa, come associazione unica) affondino le loro radici nel sostrato criminale romano degli anni 80, per avere mutuato dalla banda della Magliana alcune delle sue principali caratteristiche organizzative”.
E niente mafiosità perché “anche le relazioni con altri gruppi criminali si rivelano, ad un attento esame, contatti quasi esclusivi del solo Carminati ed attinenti a fatti estranei alle vicende processuali”.
Sono tre i punti cardine che i giudici hanno più volte sottolineato: “1) l’esistenza di due associazioni criminali (quello con base operativa presso il distributore di benzina di Corso Francia e quello che si occupava di appalti pubblici, ndr), ciascuna priva di caratteri di mafiosità, autonoma o derivata; 2) l’impossibilità di tenere conto – ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p. – di eventuali condotte qualificabili come “riserva di violenza”, condotte che possono riguardare soltanto le mafie “derivate”, le uniche in grado di beneficiare della intimidazione già praticata dalla struttura di derivazione; 3) l’impossibilità di attribuire mafiosità all’associazione volta al conseguimento illecito di appalti pubblici mediante intese corruttive: ai fini del reato di cui all’ art. 416 bis c.p. è necessario l’impiego del metodo mafioso e, dunque, il reato non si configura quando il risultato illecito sia conseguito con il ricorso sistematico alla corruzione, anche se inserita nel contesto di cordate politico-affaristiche ed anche ove queste si rivelino particolarmente pericolose perché capaci di infiltrazioni stabili nella sfera politico-economica”.
L’individuazione di due gruppi separati e distinti fa quindi venir meno “la lettura unitaria proposta dall’accusa circa l’esistenza di un unicum criminale”. E questo “per la diversità dei soggetti coinvolti nelle due categorie di azioni criminose, per la diversità stessa della azioni criminose e per la eterogeneità delle condotte organizzative ed operative”.
Così come non bastano le minacce – sebbene siano state documentate dall’accusa sia nell’inchiesta che in aula – se poi il sodalizio criminale riesce ad ottenere i risultati vengono conseguiti “senza che emerga l’uso di quella intimidazione a volte pur verbalmente evocata”.
3200 pagine che ripercorrono tutta la vicenda processuale di Mafia Capitale. Pagine in cui emerge un atteggiamento che “giustifica il sentire comune, che attribuisce a tale sistema di potere una complessiva “mafiosità”, alla quale dovrebbero essere ricondotti i fatti esaminati: e tuttavia tale valutazione attiene ad un concetto di “mafiosità” che non è quello recepito dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. per la quale, come già detto, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione”. Pagine in cui il collegio giudicante sente il bisogno di ricordare di essere “lo stesso collegio giudicante che nel 2015 riconobbe la mafiosità del clan Fasciani di Ostia”. Pagine in cui il collegio usa termini precisi, tanto per rimanere in punta di norma: “Conclusioni obbligate, quelle del Tribunale, sia per la attuale formulazione dell’art. 416 bis c.p., sia per l’impossibilità di interpretazioni talmente estensive di tale norma da trasformarsi – con violazione del principio di legalità – in vere e proprie innovazioni legislative, che rimangono riservate al legislatore”.
Valutazione dei fatti, quella operata dalla Corte, che offre molti spunti di dibattito e su cui, comunque, ci saranno comunque altri due gradi di giudizio.
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