La povertà oggi in Italia
Nel 2015, secondo l’Istat, circa 4,6 milioni di persone (il 7,6% della popolazione) erano, nel nostro Paese, in condizioni di povertà assoluta: le risorse di cui disponevano erano inferiori alla soglia necessaria ad acquistare un paniere di beni e servizi considerati fondamentali. Si tratta del numero più elevato nell’ultimo decennio: dal 2005 al 2015 l’incremento ha superato il 140%. Più nello specifico, l’Istat utilizza una pluralità di soglie differenziate sulla base di scale di equivalenza volte a neutralizzare le differenze nel numero e nell’età dei componenti delle famiglie nonché nella ripartizione geografica e nelle caratteristiche del comune di residenza. La soglia, per chi vive da solo, oscilla fra 552 euro (per chi vive in un piccolo comune del Sud) e 819 euro (per chi vive in una grande area metropolitana del Nord). I poveri estremi, quali i senza fissa dimora, sono esclusi dal computo, a causa della difficoltà di individuazione (le stime più recenti della Caritas indicano 50.000 persone circa).
I poveri salgono a 8,3 milioni (13,7% della popolazione), qualora si consideri la definizione di povertà relativa utilizzata dall’Istat secondo cui è povera una famiglia di due persone con un reddito inferiore al 60% della spesa media per consumi. Anche in questo caso, il reddito è ponderato sulla base di scale di equivalenza (nella definizione di povertà relativa la ponderazione è limitata alle differenze nelle caratteristiche familiari). Qualora la definizione di povertà relativa sia, invece, quella utilizzata da Eurostat, secondo cui è povero relativo chi ha un reddito equivalente inferiore al 60% del reddito mediano, l’incidenza supererebbe i 12 milioni (19,9% della popolazione). L’Eurostat aggiunge poi una definizione che associa povertà relativa e esclusione sociale. In questa prospettiva, nel 2014, sarebbe a rischio di povertà relativa o di esclusione sociale (Arope, at risk of poverty or social exclusion) addirittura il 28,7% della popolazione (il valore medio per la Ue 28 è di circa 4 punti inferiore). L’esclusione sociale coincide con la non soddisfazione di almeno quattro indicatori di deprivazione materiale all’interno di una lista di nove indicatori e/o con il vivere in una famiglia a bassa intensità di lavoro. Gli indicatori di deprivazione materiale sono non essere in grado di pagare le spese per la casa e/o le spese di riscaldamento e/o le spese inattese e non essere in grado di mangiare carne o proteine regolarmente, di andare in vacanza, di avere una televisione, una lavatrice, un’automobile o un telefono. È, invece, considerata a bassa intensità di lavoro una famiglia i cui componenti in età da lavoro lavorino meno del 20% delle ore potenzialmente dedicabili al lavoro.
Molte altre potrebbero essere le dimensioni di povertà da considerare. Basti pensare all’indebitamento e alla povertà di ricchezza. A quest’ultimo riguardo, già prima della crisi, secondo Brandolini, Magri, Smeeding (2012), ben 32% delle famiglie italiane non aveva una ricchezza finanziaria sufficiente per vivere per tre mesi al livello della soglia di povertà.
Passando a “guardare” dentro la povertà, da una parte, vediamo gli stessi individui che da sempre popolano il gruppo dei poveri: chi ha un basso titolo di studio, che vive in famiglie numerose, risiede nel Mezzogiorno, è genitore solo, non lavora. Ad esempio, quasi il 20% di famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di occupazione versa in condizioni di povertà assoluta. Dall’altra parte, vediamo cambiamenti non di poco conto. Innanzitutto, diversamente dal passato quando la povertà era concentrata fra i più anziani, la povertà colpisce oggi maggiormente le classi di età più giovani. La tendenza è visibile con nettezza nel grafico 1.
Ciò non implica ovviamente ignorare le difficoltà economiche in cui versano molti anziani a causa dei bisogni di assistenza non considerati dalle scale di equivalenza utilizzate. Secondo la definizione di povertà assoluta, gli anziani sono, però, l’unico gruppo di età che ha visto diminuire i rischi di povertà (lo stesso vale per la definizione relativa).
In secondo luogo, sono da segnalarsi movimenti orizzontali fra classi di reddito. Soggetti che prima stavano meglio scivolano verso il basso. Un esempio è costituito dagli operai. L’incidenza di povertà assoluta fra le famiglie con persona di riferimento operaia è aumentata da 3,9% nel 2005 a 11,7% nel 2015. Se la mancanza di occupazione accentua il rischio di povertà, neppure avere un lavoro lo neutralizza.
Infine, oltre il 28% delle famiglie di soli stranieri residenti è in condizioni di povertà assoluta (contro il 4% delle famiglie di anziani). Il che non può non preoccupare anche per le prospettive d’inclusione delle seconde generazioni.
Queste tendenze si presentano anche sul piano europeo. In Italia, tuttavia, sono accentuate. Nel nostro Paese, ad esempio, è in povertà assoluta oltre un milione di minori. L’Italia, inoltre, è il Paese dell’Unione europea con la più elevata percentuale di Neet nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni, mentre in quella tra 15 e 29 è seconda, superata soltanto dalla Bulgaria.
Una responsabilità risiede nella bassa/assente crescita economica. Certamente, tale crescita, in sé, potrebbe non comportare alcuna diminuzione della povertà. A questo fine, occorre non solo che la crescita produca occupazione (anziché sia una mera jobless growth). Occorre pure che, contrariamente a quanto si è verificato nel recente passato anche in diversi Paesi europei, l’occupazione favorisca le famiglie povere anziché il secondo coniuge in famiglie già prima non povere (cfr. Vanderbroucke, Cantillon, 2104). Altrettanto, però, è vero che assenza di crescita significa persistenza della povertà dovuta a disoccupazione.
Un’altra responsabilità riguarda il sistema di tax and transfer. Come più volte richiamato nella discussione pubblica, l’Italia, insieme alla Grecia, è l’unico Paese dell’Unione europea che non ha una rete generale di ultima istanza per tutti i poveri. Abbiamo solo un coacervo disorganico d’interventi, di entità limitata (gli importi sono assolutamente lontani dal portare i beneficiari alla soglia di povertà, sia essa assoluta o relativa), circoscritti a categorie specifiche di poveri, fortemente differenziati sul piano territoriale, a causa anche della competenza esclusiva degli enti locali in materia assistenziale, e largamente una tantum. Al contempo, trasferimenti difesi come favorevoli a chi sta peggio spesso sono preclusi ai più poveri. Si consideri il bonus di 80 euro. Tale bonus, essendo circoscritto ai lavoratori dipendenti con reddito complessivo inferiore ai 26.000 euro, esclude una fetta di lavoratori poveri (coloro che non sono dipendenti) e tutti i poveri che non hanno un lavoro. L’erogazione sotto forma di credito d’imposta comporta poi l’esclusione addirittura dei più poveri fra i lavoratori dipendenti, i quali non hanno imposte da pagare e, dunque, mancano della base sulla quale fare valere il credito (a oggi, tutti coloro che hanno un reddito fino a 8.000 euro). Infine, essendo correlati al reddito personale, gli 80 euro possono avvantaggiare soggetti che, pur essendo a basso reddito, vivono in famiglie che povere non sono. Il problema dell’incapienza caratterizza anche un’altra misura fondamentale per il contrasto della povertà: il sostegno al costo dei figli, il quale, nel nostro Paese, ha le detrazioni quale pilastro portante.
La debolezza complessiva del sistema di tax and transfer nel contrastare la povertà nel nostro Paese è messa in luce dal grafico 2. Nella stessa direzione va la stima dell’IRS (2016) secondo cui ben il 44% dei poveri assoluti non riceverebbe alcun aiuto.
Quattro nodi critici
È oggi in discussione al Senato un disegno di legge delega al Governo per il contrasto della povertà, il riordino delle prestazioni e il sistema delle interventi e dei servizi sociali che, all’articolo 1, richiede «l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà individuata come livello essenziale da garantire su tutto il territorio nazionale». Qualora approvato, l’anomalia italiana relativa all’assenza di un sistema uniforme di reddito minimo potrebbe finalmente essere sanata.
Almeno quattro nodi critici restano, però, aperti (per approfondimenti, rimando a Granaglia, Bolzoni, 2016). Il primo nodo concerne le risorse. Per il 2017 è disponibile un miliardo. Tale cifra include un incremento dello stanziamento di 250 milioni rispetto al 2016. È, tuttavia, del tutto insufficiente a garantire un’assistenza in grado di proteggere dalla povertà. Le stime più conservative indicano un fabbisogno di almeno 7 miliardi. La misura, pertanto, non potrà che restare categoriale – non potendo raggiungere tutti i poveri – e comportare importi non lontani da quelli attuali della carta acquisti sperimentale: da un minimo di 80 euro al mese per un singolo a un massimo di 404 euro per famiglie con cinque o più componenti. Ricordo che la soglia più bassa di povertà assoluta per chi vive da solo è 552 euro.
Certo, esistono i vincoli di bilancio. La domanda, tuttavia, è se non esista anche una connessione profonda fra diritti e risorse. Affermare un diritto e non assicurare risorse sufficienti per realizzarlo non implica forse una violazione del diritto stesso? Al riguardo, vale la pena ricordare la sentenza del febbraio 2010 della Corte costituzionale tedesca che dichiarò in parte incostituzionale il sistema Hartz IV (concernente il sistema tedesco dei trasferimenti assistenziali) proprio perché gli importi dei sussidi erano troppo bassi per rispettare il principio fondamentale della dignità umana. Gli importi incriminati partivano da 359 euro per una persona sola (in età da lavoro).
Il secondo nodo critico concerne alcune ombre della selettività. Innanzitutto, contro qualsiasi attesa di univocità/oggettività, la definizione di povertà è non solo inevitabilmente normativa (si sceglie la definizione relativa o quella assoluta e in entrambi i casi come la si specifica?). È anche inevitabilmente arbitraria, le carenze informative costringendo all’incompletezza qualsiasi scala di equivalenza. Detto in altri termini, non saremmo mai in grado di neutralizzare l’eterogeneità delle condizioni di bisogno. Individui appena sopra la soglia di povertà potrebbero, pertanto, essere altrettanto bisognosi di chi sta sotto. Il rischio di guerre fra poveri diventa inevitabile.
La selettività, inoltre, è divisiva: da una parte, vi sono “loro”, i bisognosi e, dall’altra, “noi”, i non bisognosi. Il che aggiunge il rischio della creazione di due cittadinanze, una di serie A e l’altra di serie B e, con esso, quello della legittimazione di comportamenti nei “loro” confronti che sarebbero inaccettabili per “noi”, anche quando mascherati nelle forme più benigne della “loro” presa in carico. Ancora, la base familiare della selettività (si usa tale base per evitare di considerare poveri soggetti che, seppure individualmente poveri, vivono in famiglie non povere) ha, come contro-partita il rischio di iniquità nella ripartizione infra-familiare delle risorse. In ogni caso, i tanti giovani obbligati a restare a casa sono, di fatto, trattati come a carico delle famiglie.
Neppure si dimentichino i costi amministrativi (da parte di chi deve verificare le condizioni di povertà) e di adempimento (da parte dei beneficiari potenziali). I costi di adempimento insieme allo stigma associato al carattere divisivo della selettività sono, fra l’altro, responsabili di fenomeni non marginali di non take up dei trasferimenti. Ancora, accanto ai falsi negativi causati dal non take up, vi sono i falsi positivi incentivati dal fatto che all’aumentare dei redditi guadagnati il trasferimento diminuisce fino a cessare.
Il terzo nodo critico concerne la condizionalità. Ovunque, in Europa oggi assistiamo a un rafforzamento della condizione dell’attivazione. Il sostegno al reddito è erogato a patto che i beneficiari si comportino bene, in primis lavorino. Ma, se già siamo in povertà, perché dobbiamo anche essere “puniti” attraverso l’imposizione di un obbligo al lavoro? Certo, si pone il rischio, sopra menzionato, dei falsi positivi. Ma, i falsi positivi non esauriscono l’universo dei poveri. Inoltre, un conto è assicurare l’opportunità di lavoro, un altro è imporre obblighi sulla mera base di un rapporto di do ut des.
Soluzioni a tutti questi problemi possono essere individuate. Ad esempio, come in Svezia, i giovani possono fare nucleo a sé, anche se vivono in famiglia, oppure le richieste di attivazione possono essere formulate all’interno di quella che White (2003) definisce come reciprocità equa, ossia, comportare richieste occupazionali non punitive, accettabili per tutti. Suggerimenti interessanti derivano dalla recente proposta di riforma del sistema assistenziale francese formulata da Sirugue (sul tema, cfr. Granaglia, 2016). Le soluzioni non sono, però, scontate e vanno ricercate con impegno e cura.
Il quarto nodo critico concerne la collocazione delle politiche contro la povertà all’interno della più complessiva politica economica e sociale. In breve, per contrastare la povertà sono sufficienti le politiche contro la povertà, una volta che queste siano finanziate e gestite al meglio? Sembra assai improbabile. La povertà è strettamente connessa al funzionamento dell’economia, alla struttura delle opportunità di occupazione sotto il doppio profilo della quantità del lavoro e delle remunerazioni offerte. Un mondo in cui la struttura delle remunerazioni è sempre più disuguale, in cui fra i 10 e 15 punti di Pil si sono spostati dal lavoro al capitale e, all’interno del mondo del lavoro, i lavoratori ricchi hanno preso la mongolfiera (per usare l’efficace immagine sulla copertina di Ocse, 2011) è un mondo che inevitabilmente crea povertà. Inoltre, maggiori sono le disuguaglianze, più difficile diventa anche il sostegno a politiche ex post di contrasto alla povertà. Seppure si tratti di una correlazione (e non di una relazione di causalità), i dati, con l’eccezione della Svizzera, sono concordi nel rilevare una relazione positiva fra disuguaglianza e povertà (Atkinson, 2015). In termini più generali, il contrasto alla povertà non è solo questione di azioni rivolte agli individui poveri. È anche questione di com’è organizzata l’economia. Chiama, dunque, in gioco tutti noi. Nei termini di Tawney (1913, p. 10, trad. mia), «ciò che i ricchi chiamano il problema della povertà, i poveri chiamano, con uguale senso di giustizia, il problema dei ricchi».
In conclusione, qualsiasi siano le singole posizioni, la strada per realizzare l’articolo 3 della nostra Costituzione appare ancora piena di sfide.
Bibliografia
Atkinson A. B. 2015 Inequality. What Can Be Done?, Harvard University Press, Cambridge 2 (trad. it. Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Cortina, Milano 2015).
Brandolini A., Magri S., Smeeding T. 2010, Asset-based measurment of overty, Temi di Discussione, Banca d’Italia, Roma.
Cantillon B., Vandenbroucke F. 2014 (eds.) Reconciling Work and Poverty Reduction. How Successful Are European Welfare States?, Oxford University Press, Oxford.
Granaglia E. 2016, “Contaminazioni proficue fra reddito minimo e reddito di cittadinanza” accessibile a www.eticaeconomia.it.
Granaglia E., Bolzoni M. 2016, Il reddito di base, Ediesse, Roma.
IRS, 2016 Costruiamo il Welfare dei Diritti, Prospettive sociali e sanitarie numero speciale, primavera.
OCSE, 2011, Divided we stand. Why Inequality Keeps Rising, Paris.
Tawney R. 2013, Poverty as an Industrial Problem, in Memoranda on the Problems of Poverty, William Morris Press, London.
White S., 2003, Civic Minimum, Oxford University Press.
Trackback dal tuo sito.