Il pericolo della criminalità cinese in Italia
“La nostra è una comunità tranquilla, le poche questioni che sorgono all’interno del nostro gruppo sono regolate a tavola, pacificamente e molte volte sono io stesso chiamato a fare da arbitro”. Questo diceva, alcuni anni fa, a Milano, l’ultraottantenne cinese Chan Harry, titolare di un’avviata azienda import-export di prodotti orientali. Parole che richiamano alla memoria affermazioni di contenuto simile a quelle dei mafiosi siciliani “storici” tra cui Franco Russo e Calogero Vizzini. Quest’ultimo, in punto di morte, ricordava quale era stato il suo ruolo:” Il fatto è che in ogni società ci deve essere una categoria di persone che aggiustano le situazioni quando si fanno complicate. In genere sono i funzionari dello Stato. Là dove lo Stato non c’è o non ha la forza sufficiente, ci sono dei privati..”.
A ben vedere anche la criminalità organizzata cinese, che ha nelle Triadi la massima espressione, come la mafia siciliana (e quella calabrese), ha una funzione concorrenziale o di supplenza rispetto allo Stato, alle istituzioni considerate lontane o assenti o sconfitte o addirittura nemiche. Le radici affondano, in entrambi i casi, in società storiche di stampo feudale, in cui il rapporto tra gli individui si gioca sulla base della disuguaglianza tra i protettori (sempre pronti a diventare padroni) e protetti, e non tra cittadini e Stato, secondo i moderni principi del diritto costituzionale. Oggi, in Cina, ma anche in altri paesi europei e in Italia, ci sono associazioni di carattere protettivo, segrete, strutture abbastanza complesse (Tong, letteralmente “sala di riunione”), impregnate dal modello culturale delle Triadi, concepite in funzione della tutela sociale delle categorie inferiori. In Cina, il lavoratore cinese si rivolgeva (probabilmente lo fa ancora) alle Tong o alle Triadi per avere giustizia, perché come recitava un vecchio proverbio “gli eserciti proteggevano l’imperatore, le società segrete proteggono la gente”. In Italia è presente, da molti anni ormai, una consistente comunità di cinesi. Arrivano nel nostro paese in modo ovattato, silenzioso. Nessuno se ne accorge o ci fa caso, almeno fino a qualche tempo fa. Fanno di tutto per passare inosservati disturbando il meno possibile gli italiani, anche se, in qualche quartiere di Roma, di Milano e nella zona di Firenze-Prato, la loro presenza è talmente evidente da aver creato problemi ai residenti. Non poteva mancare nella comunità cinese una componente criminale che, nel tempo, ha “..raggiunto livelli di assoluto rilievo, risultando in grado di gestire, in autonomia, traffici illeciti di portata transnazionale” per arrivare persino ad assumere, per esempio nella Capitale, “..una connotazione tipicamente mafiosa, dimostrando consistenza criminale e forza di intimidazione” (relazioni della Direzione Investigativa Antimafia,DIA,primo e secondo semestre 2016). Una criminalità che, almeno per tutti gli anni Novanta, non aveva creato particolari problemi nel nostro paese poiché “..tale fenomenologia criminale, rimanendo confinata nell’ambito di quell’etnia, non creava grande allarme sociale” (relazione della DIA del 2000). Se la situazione è profondamente mutata in circa un ventennio, bisognerebbe domandarsi cosa non ha funzionato sul piano della prevenzione e della repressione. Aspetto che potremo affrontare in un altro momento. Qui ci interessa porre in evidenza come siano andate aumentando le denunce fatte dalle forze di polizia italiane nei confronti di cinesi per reati associativi art. 416bis del c.p., associazione di tipo mafioso, art.416,associazione per delinquere, art.74 dpr 1990/309, associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti). Nel 2015 e nel 2016, secondo dati del Ministero dell’Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza, i gruppi criminali cinesi erano al quarto posto, relativamente alla criminalità di matrice straniera, per i suddetti delitti, che vedevano in cima alla lista gli albanesi, i rumeni, i nord africani. Situazione invariata nel primo semestre del 2017 (dati non consolidati) che, nella distribuzione territoriale per i suddetti delitti, vedono ancora una maggiore concentrazione di cinesi nelle regioni della Toscana, della Lombardia, dell’Emilia Romagna, del Veneto e della Campania. Gli interessi criminali dei cinesi sono rivolti sempre ad attività altamente remunerative come la contraffazione, il contrabbando di merci, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, l’impiego di manodopera in “nero”, lo sfruttamento della prostituzione, il controllo del gioco d’azzardo e delle bische clandestine, l’estorsione e l’usura, il narcotraffico (in particolare ketamina e lo psicostimolante shaboo, droghe destinate prevalentemente al consumo interno alla comunità asiatica). Anche se, in quest’ultimo ambito criminale, i cinesi non compaiono mai, nelle relazioni annuali elaborate dalla DCSA, tra le prime dieci nazionalità di stranieri denunciati per traffico/spaccio di stupefacenti.
Il simbolismo, i riti, i giuramenti, un linguaggio specifico, sono elementi che ricorrono in molte associazioni criminali del mondo e consentono di assicurare migliori condizioni di segretezza, creando una sorta di comune “patrimonio culturale”. L’uso di simboli per intimidire le vittime è diffuso anche in Italia e i criminali cinesi vi ricorrono spesso nel contesto delle loro comunità. Per esempio, anni fa, il “sole rosso”, simbolo utilizzato a Roma da estorsori cinesi nei confronti di connazionali, richiama l’idea del legame associativo (la circonferenza) e della molteplicità di persone (i raggi). Il colore rosso, inoltre, nella ritualità delle Triadi ricorre sempre come colore di luoghi speciali o di persone a cui viene attribuita particolare dignità. L’uomo forte della Triade è indicato come il “randello rosso” cioè colui che sanziona disciplinarmente i componenti del gruppo e coordina le attività criminali. Il “padiglione del fiore rosso” è la sala dove si celebra l’iniziazione del neofita della Triade. Il giuramento di iniziazione, che oggi si svolge in tempi ridottissimi rispetto a quello tradizionale che durava giorni, comprende complessi rituali e la pronuncia del patto in trentasei articoli che contemplano la fedeltà verso l’organizzazione e la lealtà verso tutti gli altri “fratelli”. Qualcuno storcerà il naso ritenendo tutto ciò una sopravvivenza del passato o il frutto di antiche leggende. Sbaglia sicuramente come ha sbagliato chi ha fatto un ragionamento analogo quando si scoprì l’esistenza di rituali simili nelle mafie di “casa nostra”. Chi la pensava in questo modo non teneva conto di una cultura dove le forme magiche, misteriche, mistiche, hanno un enorme peso nella pratica quotidiana popolare.
Di tutto avevamo bisogno in Italia fuorché di avere altre associazioni criminali straniere che si spartiscono il territorio con le mafie nostrane. Appare allora sempre più improcrastinabile per le forze di polizia, per i servizi di intelligence e per la magistratura raggiungere un adeguato livello conoscitivo che consenta, attraverso appropriate analisi preventive, di contrastare in modo forte strutture criminali che vengono da lontano, non solo dal punto di vista geografico e che talvolta possono apparire come “innocue” associazioni culturali di immigrati.
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