Colpo al clan Rinzivillo: affari da Gela a Roma e fino in Germania
È l’alba del 4 ottobre scorso quando l’esecuzione di 37 ordinanze di custodia cautelare svela gli ultimi affari del clan mafioso dei Rinzivillo, originari di Gela e storici alleati dell’ala stragista di Cosa nostra. Due i provvedimenti emessi – uno dalla Procura di Roma e l’altro da quella di Caltanissetta – in cui si ipotizzano reati che vanno dall’associazione mafiosa all’estorsione, dall’intestazione fittizia di beni al traffico di droga passando per l’accesso abusivo a sistemi informatici e al concorso esterno in associazione mafiosa.
Affari che attraversavano il Paese fino ad arrivare all’estero, così come dimostrano gli arresti eseguiti a Roma, in Sicilia, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Germania. In più, 11 milioni di beni sequestrati.
È il risultato delle operazioni “Druso” e “Extra fines”, che hanno visto il dispiegamento di circa 600 uomini appartenenti a Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Al centro dell’indagine lui, Salvatore Rinzivillo, boss 57enne scarcerato nel 2013 dopo aver scontato una condanna per mafia, da tempo residente nella Capitale e con due fratelli capomafia ancora detenuti al 41 bis. Assieme alla sua, spiccano le posizioni di un legale, di un imprenditore e di due uomini dell’Arma.
Il lavoro fatto dalle Procure romana e nissena, coordinate da quella nazionale Antimafia e Antiterrorismo, mostra come l’organizzazione facente capo al clan gelese aveva messo pesantemente le mani sul Car (Centro Agroalimentare Romano) di Guidonia, punto di riferimento per molti operatori del settore romani e laziali. Il modus operandi era collaudato: si partiva dalle estorsioni per poi arrivare all’imposizione delle forniture e dei prezzi. E se qualcuno, dopo essere finito nella rete, cercava di sottrarsi alla morsa della cosca, non poteva farlo senza pagare un prezzo salatissimo.
Le indagini sono partite a metà 2014, quando la Guardia di Finanza riesce a sventare un attentato dinamitardo a un capannone del Mercato ortofrutticolo di Fondi, in provincia di Latina. Mentre l’autorità giudiziaria cerca di far luce sull’accaduto, scopre che il principale sospettato dell’attentato non riuscito è in rapporti stretti con i Rinzivillo e in particolare proprio con Salvatore, considerato dagli investigatori l’attuale capoclan. Salvatore, una volta uscito dal carcere di Sulmona nel 2013, aveva scelto di non far ritorno nella sua terra d’origine ma di fermarsi a Roma, dove da una parte si impegnava a fare da riferimento per gli esponenti del suo clan che risiedevano in Sicilia e, dall’altra, aveva iniziato a intessere una fitta rete di rapporti che doveva consentire alla cosca proprio di ampliare e rafforzare il proprio business.
E la quadra, con Salvatore, in qualche modo il sodalizio l’aveva trovata, coniugando – se così si può dire -tradizione e innovazione. Sì, perché da una parte vi era un’ala criminale, che si occupava delle attività tradizionali come il traffico di droga e di armi, le estorsioni, e l’intestazione fittizia di beni; dall’altra vi era l’ala imprenditoriale che si occupava di edilizia, del mercato delle auto e – appunto – della commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e ittici. In quest’ultimo settore, gli inquirenti hanno rilevato l’esistenza di un accordo di spartizione del mercato del pesce in Sicilia, nel quale Salvatore Rinzivillo avrebbe avuto l’opportunità di “infiltrarsi” grazie a delle imprese da lui controllate ma riconducibili ai gelesi Carmelo e Angelo Giannone. Dalle carte emergerebbe poi una sorta di patto di Rinzivillo con Giuseppe Guttadauro – l’ex boss di Brancaccio detto ‘u dutturi – e il figlio Francesco, che mirava ad arrivare al monopolio del mercato del pesce siciliano attraverso le esportazioni in Marocco. Patto di cui però vanno definitivi ancora ruoli e compromissioni, visto che nessuna misura cautelare è stata presa nei confronti dei due Guttadauro. Ancora, negli atti si troverebbero anche tracce dei contatti fra il boss e alcuni esponenti mafiosi di Mazara del Vallo che costringevano alcuni imprenditori locali a fornire loro pesce a credito.
Ma il clan mirava a monopolizzare anche i mercati ittici di Roma, Milano, di alcune città tedesche e addirittura d’oltreoceano – e proprio in questa direzione andrebbero i presunti contatti con il boss italo-americano Lorenzo De Vardo, attivo a New York.
In Germania, invece, oltre alla realizzazione di investimenti nei settori delle costruzioni o dell’alimentare, i Rinzivillo cercavano anche di impiantare un traffico di droga – in particolare fra Karlsruhe e Colonia -attraverso due uomini insospettabili, sempre di origini gelesi. Per curare i propri affari, in passato il boss era riuscito ad avviare contatti anche con l’esponente di ‘ndrangheta Antonio Strangio, titolare del ristorante “Da Bruno”, dove nel 2007 fu compiuta la strage di Duisburg, decisa nel corso della faida di san Luca.
Un sistema, quello che la cosca Rinzivillo aveva messo su, che per girare bene aveva bisogno anche dell’apporto di uomini che potevano passare inosservati perché difficilmente riconducibili al clan. Fra questi c’è l’avvocato Giandomenico D’Ambra, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Per la Procura è “l’archetipo della cosiddetta zona grigia”, cioè l’intermediario fra la cosca e il mondo delle professioni. Forte del suo ruolo, D’Ambra avrebbe da un lato intessuto affari illeciti di interesse comune per conto di Rinzivillo e dall’altro avrebbe approfittato della situazione per interessi personale, avvalendosi dei “servizi” garantiti dall’organizzazione.
Poi l’imprenditore siciliano Santo Valenti, che per la Procura ostentava i suoi rapporti con il clan per trarre vantaggi al Car di Guidonia. Anche lui, come l’avvocato, per usufruire dei favori dei Rinzivillo doveva fare qualcosa per la famiglia. Così sembrerebbe che Valenti abbia organizzato una estorsione da 180mila euro ai danni del proprietario del Cafè Veneto, sito nella famosa via romana della Dolce Vita.
Infine due carabinieri, con capi d’imputazioni non del tutto uguali: se, infatti, entrambi sono accusati di accesso abusivo alle banche dati delle forze dell’ordine finalizzato a girare informazioni riservate agli uomini del clan, a uno dei due viene anche contestato il concorso esterno in associazione mafiosa.
“Abbiamo accertato ancora una volta – ha detto il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino – una delle caratteristiche fondamentali delle mafie, una di quelle che ne fanno la loro forza, e cioè il sistema delle relazioni con il mondo non mafioso, sia nella terra d’origine sia in quei luoghi dove le organizzazioni si stabilizzano”.
“Con questa indagine – ha continuato ancora Prestipino – abbiamo accertato una cosa che avevamo già notato con camorra e ndrangheta, vale a dire la stabilizzazione di una struttura mafiosa a Roma che è la proiezione di una famiglia mafiosa tradizionale”.
In realtà anche nel 2006, all’indomani dell’operazione “Tagli pregiati” che portò all’arresto di 89 persone fra Sicilia, Lazio e Lombardia, era venuto fuori il ruolo centrale di Roma come base logistica e organizzativa per il clan. Nella Capitale due dei fratelli Rinzivillo avevano infatti da anni l’obbligo di soggiorno perché sottoposti a sorveglianza speciale. Nonostante questo, i due avrebbero organizzato anche a Roma vertici mafiosi e sempre dalla Capitale avrebbero coordinato e supervisionato tutte le attività illecite del sodalizio rapportandosi con gli altri affiliati attraverso una fitta rete di emissari.
A distanza di undici anni, quindi, una situazione che si ripropone – e forse non ha mai smesso di farlo – con contesto criminale che il Gip Anna Maria Fattori ha definito “di allarmante pericolosità, che agisce su un disegno criminale espansionistico non solo sul Car ma su attività commerciali della Capitale attraverso il ricorso alla capacità di intimidazione”. “La facilità – scrive sempre la gip – con la quale Rinzivillo individua esecutori di atti intimidatori che anche con un grado di autonomia decisionale si pongono al suo servizio è significativa del grado di insediamento criminale già conseguito a Roma”.
“Le mafie sparano molto di meno e investono molto di più. E si espandono”, ha detto Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma. Come spesso accade, l’assenza di episodi violenti rischia di dare una visione edulcorata del fenomeno mafioso. I numeri di Coldiretti, in questo senso, possono aiutare a capire il danno che oggi la criminalità organizzata fa: dal pesce alla frutta, dai ristoranti ai caffè, il volume d’affari delle agromafie è salito a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30% nel 2017 con attività che riguardano l’intera filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita.
Un vecchio proverbio siciliano dice che “cumannari” è meglio del piacere. Negli ultimi anni le mafie dimostrano che, forse, “accanzari” – cioè guadagnare – lo è ancora di più.
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