“Ucciso perché solo”: i ricordi e le testimonianze di chi c’era
“È stato lasciato solo”.
Troppe volte si è usata questa frase per indicare la condizione in cui si sono trovati uomini dello Stato o uomini e donne che, pur non essendo rappresentanti delle istituzioni, con il loro lavoro e con l’esempio sono stati lasciati soli a tal punto da essere uccisi.
È stato lasciato solo il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, come ha ricordato il figlio Nando rispondendo ai microfoni di Rainews sabato scorso, in occasione della presentazione nel Tribunale di Milano del volume “Dalla Chiesa” di Andrea Galli. Sono stati lasciati soli Mauro Rostagno e Giancarlo Siani, di cui pochi giorni ricorrevano i rispettivi anniversari degli omicidi.
Ma lasciati soli da chi? Da un pezzo di quello Stato che rappresentavano o per cui lavoravano. Perché anche fare il proprio mestiere, e farlo con la schiena dritta, significa rappresentare e operare al meglio per il proprio Paese. Perché l’esempio contagia e questo è il solo modo che si ha per sperare che le cose possano cambiare davvero.
E “Ucciso perché solo” è stato il titolo della summer school di giornalismo investigativo promossa dall’Ucsi di Caserta, dall’Ordine dei Giornalisti della Campania e dal consorzio Agrorinasce (che si è tenuta nei giorni?). Scuola che quest’anno finisce la sua fase sperimentale e diventa non solo un appuntamento stabile ma un progetto concreto che coinvolgerà giornalisti, scuole e associazioni del territorio perché, come ha detto Giovanni Allucci, l’amministratore delegato di Agrorinasce: “l’informazione è stata parte di un percorso di rinnovamento a Casal di Principe e nei Comuni limitrofi. E di corretta informazione si ha sempre bisogno”.
Tre giorni quindi per confrontarsi e ascoltare testimonianze su uomini e donne uccise anche dall’isolamento in cui si sono trovati: da Giovanni Falcone a don Giuseppe Diana, passando per i casi di Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli ed Enrico Mattei.
Racconti di chi c’era, come Augusto Di Meo, che vide il killer di don Peppe Diana e andò subito dai carabinieri. Una scelta, quella di dire “ho visto”, che gli ha fruttato minacce di morte ma non il riconoscimento di essere un “testimone di giustizia”, perché nel 1994 la legge sui testimoni di giustizia non esisteva ancora. E racconti di chi ha ripreso in mano una indagine quasi dimenticata, come è successo al sostituto procuratore della Corte d’Appello di Milano Enzo Calia, che non si è fermato a una verità non verità sul caso Mattei, quella dell’archiviazione datata 1962, e ha riaperto il caso.
A venticinque anni dalle stragi di mafia, però, non poteva che essere la sessione dedicata al giudice Falcone quella più seguita.
“Il pool antimafia ha finito di operare per mano della maggioranza del Csm di allora”, ha detto durante il suo intervento Giuseppe Ayala, pubblico ministero durante il primo Maxiprocesso a Cosa nostra. E basterebbe questa affermazione per capire in che clima si è trovato a lavorare Falcone, quanto sia stato isolato e come i risultati raggiunti siano finiti sotto il tiro incrociato delle pressioni politiche che hanno attraversato il Consiglio Superiore della Magistratura. Così, accanto alla ricostruzione del percorso fatto dal pool antimafia per arrivare a istruire un processo che, fino ad allora, era considerata una utopia o agli aneddoti che raccontano Giovanni, l’uomo, l’ex pm non ha nascosto l’amarezza per una vicenda che ha segnato il passo. Quella della nomina a capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo che, all’indomani della sentenza di primo grado del Maxi, sembrava dovesse naturalmente spettare a Giovanni Falcone e che invece fu ad Antonino Meli perché, come ha sottolineato sempre Ayala: “i parametri per essere promossi erano l’anzianità e il non demerito”. E poi il ricordo delle malelingue sul fallito attentato dell’Addaura o del caso del Corvo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno. Ma nelle parole di Ayala non è mancato il riferimento all’ironia che caratterizzava Falcone: “Alla fine della requisitoria del Maxi – ricorda il pm – Giovanni si avvicinò per farmi i complimenti e sornione aggiunse ‘sei stato un bravo cantante, perché ricorda che il testo lo abbiamo scritto noi’ e io, per tutta risposta, ho detto ‘si, ma voi avete scelto Frank Sinatra per cantarla!’”.
Ayala sa di aver avuto la fortuna di vivere un periodo della sua vita accanto a due giganti: “L’eredità di Falcone e Borsellino è immateriale, non quantificabile e destinata a non morire mai”. E questa consapevolezza è forse la sola consolazione davanti alla perdita dei due amici.
“Sono stato un allievo di Falcone: senza di lui non avrei capito quella che chiamava ‘Cosa nostra’ proprio per differenziarla dalle altre mafie”. Così ha esordito Claudio Martelli, ex ministro di Grazia e Giustizia che ha voluto Falcone accanto a sé proprio nel momento in cui stava prendendo forma quella che venne poi chiamata la “Superprocura”. Dalle sue parole, sebbene sottolinei come i veri nemici siano stati e siano i mafiosi, affiorano i ricordi di ostacoli posti da chi non e lo aspetti. Martelli ha raccontato e ricordato allora dello sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati, contraria al rafforzamento dei poteri della Superprocura e delle parole di Raffaele Bertoni, a lungo presidente dell’Anm, che disse “Non c’è bisogno di una superprocura: non c’è bisogno di un’altra cupola mafiosa”.
Ma è nelle parole di Leonardo Guarnotta, l’ultimo dei quattro ad arrivare nel pool antimafia nel 1984, proprio su richiesta di Antonino Caponnetto, che la figura di Falcone emerge con maggiore emozione. “Lavorare accanto a due mostri sacri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mi ha arricchito prima umanamente e poi professionalmente. Anche dopo la loro morte, nei vari incarichi che ho avuto nel tempo, ho sempre cercato di fare quello che avrebbero fatto loro”. Dalla sua voce emergono gli sprazzi dei giorni passati insieme a mettere insieme fatti, parentele e rapporti, per ricomporre come in un mosaico tutto quello che sarebbe poi confluito nella famosa ordinanza sentenza “Abbate Giovanni + 406”. Guarnotta ha ricordato come Falcone, nelle sere di lavoro, gli dicesse spesso: “Leonardo, si è fatto tardi: leviamo il disturbo allo Stato”. Una frase che risuona adesso amaramente profetica e che, come ha ammesso il giudice, indica come ci fosse “uno Stato che ci stava accanto e un altro Stato – più grande – che stava alla finestra aspettando di vedere passare il nostro cadavere”. L’ex presidente del Tribunale di Palermo non si risparmia, passando dagli aneddoti personali alle convinzioni maturate attraverso il lavoro: “La convenienza è la linfa della mafia – ha detto – e non basterà una generazione per sconfiggerla. È stato sconfitto il braccio armato della mafia, ma non la mafiosità che ormai è ciò che si esporta”.
Guarnotta non è riuscito a nascondere l’emozione mentre dice che: “Vivere accanto a loro è stata un’esperienza indimenticabile e, al contempo, foriera di una cicatrice inguaribile”, ma quello che ha lasciato alla platea è l’eccezionalità nella normalità di Giovanni, di Paolo e di chi, con loro, si è messo davvero a servizio della collettività: “Un giudice che vuole fare il giudice rende un servizio. Noi siamo dei servitori della giustizia e questa convinzione faceva parte delle affinità caratteriali utili e necessari per lavorare insieme. Ognuno di noi era cosciente del proprio ruolo e ognuno di noi voleva vare del proprio meglio. E lo fai accentandone le conseguenze, qualsiasi esse siano”.
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