“Faccia da mostro” se ne va per sempre, ma restano i Segreti di Stato
Siamo quasi certi che l’autopsia e l’esame tossicologico non faranno che confermare la causa naturale di una morte giunta all’improvviso, ma al momento giusto, se mai si possa dire per chiunque che la morte sia arrivata al momento giusto.
Un infarto. Sicuramente un infarto ha provocato il decesso di Giovanni Aiello, l’ex poliziotto diventato noto alle cronache come “Faccia da mostro”, un nomignolo guadagnatosi in ragione del volto deturpato da un colpo di fucile. Una fucilata che lui stesso diceva di aver riportato durante uno scontro a fuoco con la banda di Graziano Mesina, ma che si era procurato probabilmente in modo diverso, visto che non è mai stata rinvenuta alcuna traccia ufficiale di questo conflitto con il bandito dell’Anomima sarda.
È questo uno dei tanti misteri che ha costellato la vita di un personaggio, prima vagheggiato come responsabile di efferati delitti e poi identificato come custode di indicibili segreti, anche se non aveva fino ad oggi riportato alcuna condanna, tanto che i suoi avvocati hanno dichiarato che muore da innocente.
Per oltre due decenni “Faccia da mostro” è stato un fantasma di cui si diceva tanto e si scriveva poco a Palermo: era diventata una leggenda metropolitana l’esistenza di un killer implacabile, proveniente dalle forze dell’ordine, ma in realtà al servizio delle cosche, in un periodo in cui gli uomini migliori dello Stato venivano spazzati via, proprio grazie al contributo fattivo e/o omissivo di traditori delle istituzioni.
Del resto le stesse vicende processuali di Bruno Contrada e Ignazio D’Antone, funzionari apicali della Polizia di Stato e con un ruolo anche nei servizi segreti, come le rivelazioni successive alla sua morte sull’ambiguo ruolo giocato da un altro superpoliziotto, come Arnaldo La Barbera, avevano gettato più di un’ombra su quella sottile linea di demarcazione tra le forze dell’ordine e la criminalità organizzata e sui possibili punti di contatto tra due mondi che dovrebbero essere agli antipodi.
Il primo a dare un nome a questo killer fantasma, il primo a chiamarlo “Faccia da mostro” era stato Vincenzo Agostino, il coraggioso padre dell’agente di polizia Nino Agostino ucciso davanti ai suoi occhi, insieme alla moglie Ida Castelluccio. Agostino padre, infatti, raccontò di una strana visita ricevuta, proprio pochi giorni prima il duplice brutale omicidio del 5 agosto del 1989: «Cercava Nino ed era insieme ad un altro giovane. Mi dissero che erano colleghi. Uno aveva la faccia butterata, soprattutto sul lato destro. Una faccia da mostro».
Poi a metà degli anni Novanta, prima di essere ucciso, il boss Luigi Ilardo – mentre era in attesa di essere ammesso al programma di protezione – confermò al colonnello dei ROS Michele Riccio l’esistenza di un poliziotto con la faccia da mostro, al quale erano da attribuire servizi di favore prestati a Cosa nostra.
Furono però dei giornalisti (Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo de “La Repubblica” e Walter Molino con le telecamere di “Servizio Pubblico”) ad illuminare per la prima volta quel volto deturpato, andando a rintracciare Aiello nel 2013 sulle coste calabresi di Montauro, davanti a quel mare mosso dove è morto l’altro giorno.
Da quel momento, per Aiello è iniziato un periodo più complicato di quello passato in servizio nella Palermo degli anni Settanta, vissuto nelle trincee della mobile o dell’antirapina. Un periodo culminato, crediamo anche emotivamente per lui, nell’avvenuto riconoscimento da parte di Vincenzo Agostino nel febbraio dello scorso anno nell’aula bunker di Palermo.
Negli ultimi anni, infatti, “Faccia da mostro” è stato collocato dalle ipotesi investigative non solo sui tragici scenari delle stragi palermitane del 1992, ma anche in altre vicende palermitane, perché alcuni collaboratori di giustizia lo hanno accusato di aver avuto un ruolo anche nell’omicidio del vicequestore Ninni Cassarà e nel fallito attentato a Giovanni Falcone, lungo le scogliere dell’Addaura.
Quell’Addaura che legherebbe come un filo rosso il destino di Aiello a quello di Nino Agostino e di Emanuele Piazza, vittima di lupara bianca. I due agenti che avrebbero avuto un ruolo attivo nel far fallire l’attentato a Falcone, avrebbero poi pagato con la vita lo sgarbo alle cosche.
Sul conto di Aiello, oltre a Palermo, hanno indagato le procure di Catania e Caltanissetta e, recentemente, anche quella di Reggio Calabria, ipotizzando un suo coinvolgimento nell’inchiesta sull’intesa stragista tra Cosa nostra e ‘ndrangheta calabrese e sui nuovi scenari che si stavano delineando all’inizio degli anni novanta tanto sul versante politico che su quello economico. Un’indagine, quella della Procura di Reggio Calabria, coordinata dal pm Giuseppe Lombardo che aveva chiamato in causa Aiello, in ragione di un suo legame con Bruno Contrada che lo avrebbe posto al centro degli scambi inconfessabili tra mafie e Stato.
Fino al momento della sua morte, Aiello aveva quindi scatenato tante illazioni e molti sospetti, ma di fatto aveva incassato solo archiviazioni, da alcuni giudicate troppo frettolose, ma comunque archiviazioni.
Ora la sua morte sembra mettere una definitiva pietra tombale sull’accertamento della verità di quanto potrebbe aver fatto o di quanto potrebbe aver saputo nel corso di una carriera vissuta nell’ombra.
Rimangono, però, come muti convitati di pietra sullo scenario della Storia, tutti i segreti di Stato, dei quali Aiello potrebbe essere stato uno dei depositari più fidati.
Resta, senz’altro, inevasa l’ansia di verità e giustizia dei familiari delle vittime di quel connubio indicibile tra Stato e antistato, a partire proprio dalla famiglia Agostino, per troppo tempo lasciata sola nella sua ricerca.
Si rafforza anche la certezza che al punto in cui siamo arrivati, la verità processuale non basta più, non può bastare più, a meno di voler accettare l’inaccettabile: basti pensare agli esiti contraddittori e avvilenti dei quattro processi per la strage di via D’Amelio e delle numerose sentenze e ordinanze che, lungo questi venticinque anni, hanno certificato l’impotenza dello Stato nel dare una risposta convincente all’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, come lamentato anche recentemente da Fiammetta Borsellino.
Non perdiamo però la speranza che, prima o poi, possa emergere dai bassifondi della storia del nostro Paese un “pentito di Stato” che, come fece Tommaso Buscetta con Giovanni Falcone, possa offrire una chiave di lettura nuova e utile a comprendere in modo diverso gli avvenimenti che riguardano gli ultimi trent’anni di lotta alle mafie in Italia.
Senza un “pentito di Stato”, crediamo sia estremamente difficile arrivare alla verità.
A meno che la politica, a partire dalla Commissione antimafia che pure segnali incoraggianti in questa legislatura ne ha offerti a più riprese, abbia uno scatto di reni e voglia assumersi l’onere di aprire una stagione di conoscenza e non solo di denuncia, per arrivare al nocciolo della questione: il legame tra uomini dello Stato e i boss.
“Tertium non datur”: così almeno ci hanno insegnato.
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