La mafia foggiana e il rischio di perdere il filo degli eventi
È il bello e il brutto della cronaca. Da quando poi l’informazione è diventata dominio del web e si sono moltiplicati i canali all news, che in realtà per questo sono nati, il fenomeno è aumentato.
Succede un fatto, noi giornalisti facciamo la corsa per essere i primi a parlarne – ché sennò qualcuno potrebbe con disappunto sottolineare che “siamo arrivati secondi”, quando non addirittura terzi o peggio ancora – e rischiamo di perdere di vista il quadro complessivo. Rischiamo di non far capire a chi legge o guarda un servizio in tv da cosa prende origine quel fatto, perché è avvenuto e perché proprio in quel posto.
Soprattutto, una volta che l’urgenza è stata superata da un nuovo evento, rischiamo di non dare più seguito a una notizia.
Prendiamo i fatti di Foggia, ad esempio. Sono stati ovviamente l’apertura di tg e giornali nei giorni scorsi e oggi, come la cronaca e il dovere di informare impongono, si parla d’altro. Va bene. Ma quali sono i rischi del perdere il filo delle notizie? Che succede se non si guarda fino in fondo un fenomeno?
La storia della mafia della zona della Capitanata, ad esempio, ha radici antiche. Risale alla fine degli anni Settanta, quando Raffaele Cutolo, boss di Ottaviano e fondatore della Nuova Camorra Organizzata, convoca il 5 gennaio del 1979, presso l’hotel Florio di Foggia, una riunione per stabilire quali debbano essere i capizona pugliesi. A raccontarlo, sarà proprio un cutoliano poi pentito: Pasquale D’Amico. Per capire bene come sarà spartito il territorio pugliese, bisognerà aspettare l’operazione anticamorra condotta dai carabinieri di Bari nel maggio del 1984 e il processo celebrato nel 1986, sempre a Bari, contro 195 persone.
L’operazione degli uomini dell’Arma prende avvio dalla scoperta di due associazioni organizzate sul modello camorristico: la “Nuova Camorra Pugliese”, operante a livello regionale, e la “Famiglia Salentina Libera”, attiva nella zona omonima. I carabinieri indagano e alla fine arrivano una sessantina di perquisizioni domiciliari e nelle carceri pugliesi, più decine di provvedimenti di custodia cautelare. L’accusa per tutti è di associazione per delinquere di stampo mafioso e camorristico finalizzata al compimento di estorsioni, rapine, spaccio di stupefacenti e controllo delle bische clandestine. Durante le perquisizioni – che hanno riguardato anche le case circondariali di Bari, Foggia, Lucera e San Severo – è stata trovata abbondante documentazione riguardante le formule di affiliazione degli imputati alle due organizzazioni. E visto che gli imputati erano quasi tutti pugliesi, gli inquirenti sono giunti alla conclusione che è più corretto parlare di un “contagio” che di importazione della camorra.
E l’affiliazione nei penitenziari del tacco d’Italia è parte della tesi con cui il 12 luglio del 1986 vengono chiamati alla sbarra del tribunale di Bari 195 persone, tutte accusate di aver costituito e fatto parte della Nuova Camorra Pugliese, affiliata alla NCO. Un fenomeno, quello dell’affiliazione, che si protrarrà per tutti gli anni Ottanta – così come confermerà nel 1995 una volta diventato collaboratore di giustizia Bruno Di Firmo, fratello di Antonio, anch’egli pentito e presunto capo clan di San Severo – e che verrà agevolato soprattutto dall’arrivo di molti camorristi nelle carceri pugliesi.
A tal proposito, il 25 gennaio del 1983 il consiglio comunale di Bari aveva protestato, manifestando la propria “motivata preoccupazione” a causa del trasferimento di circa un centinaio di detenuti camorristi provenienti da Poggioreale. Di questi, circa 60 erano destinati al carcere barese, gli altri quaranta sarebbero stati equamente divisi fra il carcere di Foggia e quello di Lucera. Una decisione che, sosteneva – a ben vedere, col senno di poi e non solo – il consiglio comunale, rischiava di “provocare gravissimi inquinamenti camorristici nella criminalità locale, in una situazione nella quale allarmanti fenomeni di intimidazione nei confronti di commercianti indica che la nostra città è già entrata nel mirino della delinquenza organizzata”.
Criminalità che infetta dalle carceri e non solo. L’altro problema, per il foggiano, è sempre stato quello d’essere sede dei soggiorni obbligati. Un nome su tutti, quello di Giuseppe Sciorio, uomo della NCO molto amico di Vincenzo Casillo, a sua volta vicinissimo al boss di Ottaviano. Sciorio verrà ucciso in una faida nel 1983 a Foggia, dove viveva da quattro anni in una villa con moglie e figli.
Tutti fatti che meritavano d’essere il centro delle cronache locali e non solo. Tutti fatti che, se non seguiti, finiscono per dissolversi nella prassi di una criminalità di provincia dietro cui, invece, si nasconde altro.
Fatti che non sono sfuggiti, nell’aprile del 1989, all’allora arcivescovo di Foggia, monsignor Giuseppe Casale. “I metodi della camorra sono stati largamente diffusi e ispirano l’azione di coloro che, anche in Capitanata, mirano ad impadronirsi – con ogni mezzo – del potere economico, condizionando la stessa gestione della cosa pubblica”, scrive monsignor Casale all’indomani dell’attentato a Salvatore Spezzati, imprenditore edile vittima (come tanti) di racket. Lo scrive in una nota che invia a tutti i parroci della provincia invitandoli a leggere quelle righe durante la messa domenicale. “La criminalità organizzata insidia in maniera grave il nostro vivere sociale. Il racket delle estorsioni, i taglieggiamenti, le minacce, gli attentati notturni ai cantieri e alle persone sono espressione di un malessere che distorce e può bloccare lo stesso progresso economico del nostro territorio”. Lo fa perché non si taccia davanti ai fatti, perché si dicano parole precise che svelino ciò che molti sanno ma non vogliono dire. Lo fa perché “tacere significherebbe venir meno al nostro dovere di denunciare il male e stimolare i cristiani ad assumere le loro responsabilità”.
Passano pochi mesi e le parole di monsignor Casale diventano quelle della Commissione Parlamentare Antimafia: la Puglia viene descritta come una “regione a rischio”, su cui “occorre vigilare, intervenire, impegnarsi a tutti i livelli perché sia bloccata l’evoluzione della criminalità organizzata locale verso forme di tipo mafioso-camorristico e si eviti che la Puglia diventi la quarta regione ad occupazione delinquenziale del nostro paese. I margini di intervento, gli anticorpi, ci sono; bisogna solo averne consapevolezza ed agire con adeguatezza e tempestività”. Nel territorio sono aumentati le spie della presenza mafiosa ma, per la Commissione, alla Puglia manca ancora sia quella struttura presente in Campania, Calabria e Sicilia, sia l’identificazione di una gerarchia centrale che raccolga attorno a sé una criminalità in crescita.
Parlando poi di Foggia, da San Macuto sottolineano che vi è in parte una “oggettiva minimizzazione della pericolosità e rilevanza della realtà criminale locale. Vi sono state note infiltrazioni di clan camorristi, mentre non si può escludere che gruppi criminali locali si siano dati modelli organizzativi assimilabili a quelli della mafia”. Allarmante, poi, il mercato della droga (a Foggia e provincia sono 6 mila circa i tossicodipendenti). In aumento, anche a causa dell’inerzia degli organi dello stato e della regione, le truffe nel settore agricolo. Data la crisi in questo settore, è opinione comune che ci sia circolazione di ricchezza sproporzionata rispetto al prodotto interno lordo. A Foggia proliferano gli sportelli bancari (otto nei soli primi quattro mesi dell’89). È presente un centro di potere economico-affaristico che “riesce anche a influire sulle attività della banche locali, a controllare l’informazione, a non farsi nemmeno sfiorare dalle indagini”. Qualora gli interessi politici si saldassero con interessi economici e finanziari di privati “il degrado istituzionale sarebbe inequivocabile ed irreversibile. Le istituzioni potrebbero pagare conseguenze pesantissime”.
Gli Anni Novanta si aprono con l’omicidio eccellente di Gerardo Agnelli, ucciso a Foggia il 12 giugno del 1990. Agnelli, all’epoca, era considerato uno dei reggenti dell’organizzazione mafiosa della zona e aveva contribuito alla diffusione nella Capitanata dei metodi organizzativi della Nuova Camorra Organizzata. L’uomo era talmente tanto affascinato da Raffaele Cutolo da non solo ergerlo a unico modello da seguire, ma da mutuarne anche il soprannome de “’o professore”.
Dal 1991 al giugno del 1995, la faida di Monte Sant’Angelo, attiva fin dai primi anni Ottanta e che vede i Li Bergolis opporsi agli Agnelli-Priosa, fa segnare 20 omicidi, due casi di lupara bianca e 22 tentati omicidi. Nel 1992, l’anno più sanguinoso dei quattro, il fuoco del clan arriva fino in Lombardia, dove a Nova Milanese verrà ucciso Nicolino Primosa.
Davanti all’escalation di violenza, la Commissione Parlamentare Antimafia, sotto la presidenza di Nichi Vendola, non può che constatare come l’allarme lanciato anni prima da Palazzo San Macuto, sia ora divenuta una situazione concreta: “Ciò che allora costituiva semplice sintomo e segnale, è ora un fatto chiaro e manifesto che trova riscontri in atti giudiziari e in risultanze processuali”. A Bari le famiglie criminali tendono sempre più a “mutuare i modelli mafiosi siciliani e calabresi nelle modalità di presenza e di controllo del territorio”. A Foggia “la Società” è dedita ad estorsioni, usura, traffico di stupefacenti ed armi. Le organizzazioni criminali individuate con certezza nella Provincia sono 12 e raggruppano oltre 300 affiliati. Analizzata anche, nell’intera regione, la situazione della presenza di società intermediazione il cui alto indice di presenza potrebbe essere sintomo di attività di riciclaggio.
Il tempo scorre, eppure sembra che non si riesca a fare tesoro dei fatti e delle considerazioni. A gennaio del 2003 un “diffuso clima di omertà”, nonostante gli omicidi in pieno giorno, e la carenza di organico nelle forze di polizia continuano a essere fra le principali problematiche che il Comitato per l’ordine e la Sicurezza di Foggia denuncia in audizione alla Commissione Antimafia.
Questioni che stridono con i numeri in crescita della criminalità: nel foggiano, in quell’anno, si registra la presenza di 16 clan con un migliaio di affiliati. I gruppi della criminalità organizzata più numerosi si trovano a San Severo, con 144 affiliati, a Foggia con 83, Cerignola 151, Manfredonia 119, ed altri sparsi nei restanti centri della provincia. “Vi è in Capitanata anche una forte presenza di organizzazioni della criminalità che si raccordano alla ‘ndrangheta, alla camorra e ai clan della criminalità albanese”.
Nel 2004, il Procuratore nazionale Antimafia, Pier Luigi Vigna, parla della metamorfosi della criminalità del Gargano, che da criminalità rurale si trasforma in criminalità economica. Non solo: le indagini dei mesi precedenti porteranno ad accertare come il clan dei Romito-Li Bergolis avesse rapporti con la cosca reggina dei De Stefano – Libri e con il clan camorristico Ricciardi di Pollena Trocchia (comune della provincia di Napoli).
Seguendo il fil rouge dei rapporti fra mafia della Capitanata e le “sorelle maggiori”, arriviamo al 16 luglio del 2013, quando una operazione dei carabinieri del Ros e del comando provinciale di Foggia sulle “batterie” della Società foggiana porta all’arresto di 23 persone e al provvedimento di obbligo di dimora per un altro soggetto. In tutto ci saranno 78 indagati. Quello che emerge è un controllo militare del territorio che si associa ad una vocazione affaristica e, soprattutto, il ruolo sempre maggiore che i clan stanno acquisendo a livello nazionale, soprattutto per la loro penetrante capacità di assoggettamento esterno, tanto da infiltrare il tessuto socio-economico della zona, da relazionarsi anche col clan dei Casalesi e di entrare attivamente nel mercato del narcotraffico.
Questa è la mafia della Capitanata. Anzi: questo è solo un pezzo di ciò che emerge se si cerca di vedere come la radice camorristica abbia continuato a lavorare nella criminalità pugliese a cui ha dato origine.
Quasi impressiona come negli anni le grida di allarme o gli avvertimenti siano rimasti in gran parte tali, fino a certificare di volta in volta l’affermazione di una situazione che, probabilmente, si poteva evitare o quanto meno arginare. Perché una cosa è vera e vale per tutte le mafie. Una cosa che Isaia Sales, docente di Storia delle Mafie all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, non si stanca mai di ripetere: quando lo Stato (tutto lo Stato) deciderà di dichiarare davvero guerra alla mafia, la mafia sarà destinata a soccombere.
La mafia foggiana ha caratteristiche che non ti aspetti: ha la capacità di rigenerarsi, di rimodularsi rapidamente, di autoregolarsi sebbene non ci sia un vertice unico. Sa armonizzare pratiche arcaiche e crudeli con obiettivi finanziari. Sa usare a proprio vantaggio dei caratteri di arretratezza territoriale per sottrarsi al controllo delle forze dell’ordine.
Si legge nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia presentata a fine giugno di quest’anno: “Le organizzazioni mafiose operanti nel territorio in esame – pur presentandosi frammentate e prive di un vertice aggregante – evidenziano una solida strutturazione interna, forte senso di autodisciplina, capacità di programmare e attuare strategie criminali e di intessere alleanze sia tra i diversi gruppi operanti sul territorio; sia con sodalizi mafiosi campani e calabresi. La duttilità nell’ intessere tali relazioni è indotta – a differenza che da improvvisate mire espansionistiche o personali ambizioni carrieristiche, tipiche della mafia del barese- da decisioni strategiche legate a variazioni di equilibri di potere, ovvero allo stato detentivo dei vertici; pertanto, le continue aggregazioni e disgregazioni dei gruppi dei quali si compone la “Società Foggiana” appare funzionale a perseguire gli interessi criminali, riorganizzandosi prontamente per contrastare gli effetti dei colpi inferti dall’ azione di contrasto indefessamente condotta da Magistratura e Forze dell’ ordine.
Un elemento di supporto alla solidità di tali organizzazioni e alla loro impenetrabilità deriva dal contesto civile della zona, caratterizzata da arretratezza culturale, omertà e illegalità diffusa: sembra quasi impossibile che da tale contesto si sia sviluppata una criminalità mafiosa moderna e flessibile, vuoi riguardo gli obiettivi che si prefigge – essenzialmente finalizzati ad infiltrarsi nel tessuto economico-politico-sociale – vuoi riguardo i modelli relazionali; una mafia proiettata verso il più moderno modello di “Mafia degli Affari”, ma che trae la sua forza dalla capacità di coniugare la sua proiezione più avanzata con i tradizionali modelli culturali del territorio, primo tra tutti l’ omertà; nonché con una metodologia di imposizione delle proprie regole all’interno e all’ esterno dei gruppi basata sulla forza che si trasforma in ferocia; con regole di vendetta e di punizione mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali.
Il risultato di questo connubio micidiale tra modernità e lungimiranza negli obiettivi con valori e metodi arcaici è un capillare controllo del territorio, ottenuto e consolidato con una lunga scia di sangue ed anche con un numero impressionante di “lupare bianche”, su cui gli inquirenti del Distretto stentano a far luce: nessun apporto collaborativo da parte della popolazione; assenza di collaboratori di giustizia; morfologia ostile del territorio che spesso non consente neanche normali servizi di pedinamento, di osservazione e, talvolta, neanche di attività tecniche, non essendo il territorio integralmente coperto dai servizi di telefonia”.
Questa è la mafia foggiana. Certo, se la paragoniamo al battage che c’è intorno a ‘ndrangheta, mafia siciliana e camorra vien voglia di dire che è una mafia piccola piccola. E magari per certi versi lo è ancora. Ma sottovalutarla è un errore che ci si può permettere di fare.
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