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La cosa romana che non è mafia ma le assomiglia

Enrico Bellavia il . Criminalità

mafia_capitaleLe porte di un palazzo di giustizia sono troppo anguste perché vi passi la storia, ma una porzione accettabile di verità giudiziaria, questa sì.

La sentenza Mafia Capitale, stabilisce che Roma ha avuto una sua consorteria d’affari, anzi due, ma che non può chiamarsi mafia perché le categorie del codice non sono sufficienti a identificarla come tale.

Insomma è qualcosa di diverso, non una mafia come le altre, non aggredibile con gli strumenti che l’attuale legislazione mette a disposizione: il concorso esterno e l’aggravante specifica prevista dall’articolo 7.

Ma la decima sezione penale ha avuto tutt’altro che mano leggera nel sanzionare sia l’associazione per delinquere sia la corruzione.
Perché la “cosa” romana non aveva il pieno controllo del territorio, ma era ugualmente riuscita a spartirsi la Capitale in aree di influenza che vedevano alla testa delle tre macrozone Massimo Carminati, ex Nar, passato dalla militanza neofascista alla rete d’affari che dai camerati si è estesa al vasto mondo del sottobosco politico bipartisan della città, Michele Senese, il pazzo, camorrista di lungo corso e il clan dei Casamonica.

Nessuno di questi, come accade nelle regioni del Sud, ha la piena giurisdizione sui rioni ma ha una rete comunque efficace.
Ciascuno di questi nello svolgere le proprie attività ha potuto godere del potere di intimidazione che non deriva, però, a parere dei giudici, dall’essere mafia.

Il discrimine è sottile in punta di diritto e non giustifica l’esultanza di avvocati e imputati quasi che il tribunale li avesse mandati assolti.
Semmai ha rimarcato un principio in linea con un vento giurisprudenziale che sembra essere cambiato: da un lato il malcelato fastidio per il concorso esterno, dall’altro una pervicace volontà di confinare entro ambiti geografici limitati la presenza mafiosa.

Per il resto, non occorre scomodare troppi riferimenti ma basti ricordare agli interessi dei Caruana Cuntrera su Ostia e citare il nome di Pippo Calò per liquidare come non argomentabile una pretesa impermeabilità alla mafia della Capitale.

Per questa cosa romana, la procura di Giuseppe Pignatone aveva fatto riferimento al concorso esterno, che proprio quel magistrato ha praticato con estrema prudenza.

A Palermo, quando si trattò di contestarlo al presidente della Regione, Salvatore Cuffaro, Pignatone si oppose e preferì procedere per favoreggiamento aggravato.
Non così per il Mondo di mezzo. Qui ha riconosciuto a Carminati e al suo sodale Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, un ruolo egemone nel sodalizio da cui discendono i comportamenti di altri. Ma ha anche individuato un grimaldello fondamentale per aprire i forzieri della spesa pubblica capitolina e regionale in Luca Gramazio, il politico a disposizione, il colletto bianco organico al sistema.

Ora questa sentenza non racconta tutta la storia, non ne aveva la pretesa, anche perché chi in passato ha coltivato questa aspirazione ha fallito, ma una parte della storia quella che consegna responsabilità penali individuali e rilevanti, questo sì.

A cosa serve questa sentenza? A stabilire che questa cosa non è mafia perché non ne ha i crismi tradizionali ma le consorterie amicali che partono dalla comune militanza e si fanno comitato nel mondo degli affari sono comunque capaci di condizionare la vita politico amministrativa della città.

E vale anche per chi si ostina a sbandierare nient’altro che l’essere nuovo e ha già inanellato alcuni passi falsi nella pretesa di assecondare le aspettative dei propri amici.

*Pubblichiamo, con il consenso dell’autore l’articolo, apparso il 20 luglio 2017 sul blog de “La Repubblica”

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