Graviano, Messina Denaro e il senatore D’Alì
I pm di Palermo chiedono la sorveglianza speciale per l’ex sottosegretario all’Interno e produce le trascrizioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio. La difesa: “Parla di un altro politico”
La vicenda dei terreni di contrada Zangara ceduti a Riina con tanto di restituzione del denaro; i pentiti che raccontano della campagna elettorale condotta nel 1994 con la protezione del massimo vertice di Cosa nostra trapanese, rappresentato dai padrini Messina Denaro; l’assunzione alla Banca Sicula di Salvatore Messina Denaro, figlio di don Ciccio il patriarca mafioso del Belice; i rapporti con una serie di imprenditori implicati nelle indagini su mafia e appalti pilotati, a cominciare da quelli con Masino Coppola, l’imprenditore valdericino che dal carcere cercava di mandare fuori i suoi messaggi e che i pentiti palermitani hanno indicato come uno dei candidabili con il partito Sicilia Libera, che Leoluca Bagarella voleva organizzare per portare la mafia in Parlamento o che sapevano dei suoi legami con Cosa nostra.
Non meno rilevanti le confessioni del collaborante Nino Birrittella che fu potente imprenditore della cupola trapanese e i racconti di un sacerdote vicinissimo al senatore, don Ninni Treppiedi. In sintesi, c’è tutto questo nel procedimento per l’applicazione della sorveglianza speciale , proposta dalla Dda di Palermo nei confronti dell’ex sottosegretario all’Interno, il senatore forzista Tonino D’Alì.
Il procedimento è cominciato davanti ai giudici del Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani ed è cominciato con un colpo poi mica tanto a sorpresa, ma che comunque fa allungare la lista delle prove. D’Alì è uscito prescritto e assolto dai due gradi di giudizio affrontati con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ma per la Dda di Palermo, concorde con il ricorso presentato in Cassazione dalla Procura generale di Palermo dopo la sentenza di appello (udienza prevista per gennaio 2018), ci sono tutti gli elementi per definire il senatore D’Alì un soggetto “socialmente pericoloso”.
Alla prima udienza tenutasi lo scorso 13 luglio, il pm Pierangelo Padova della Procura antimafia di Palermo ha chiesto l’ammissione delle trascrizioni delle chiacchierate intercettate dalla Dia nel carcere di Ascoli Piceno, tra Giuseppe Graviano, detto “Madre Natura”, il boss di Brancaccio, rione palermitano e zoccolo duro della mafia della città, e il detenuto Umberto Adinolfi. In totale trentadue verbali, in mezzo a questi quello che per la Dda è da ricondurre al senatore D’Alì e ai suoi rapporti con il latitante Matteo Messina Denaro.
La difesa, che il senatore D’Alì ha affidato all’avv. Arianna Rallo, ha chiesto termine per esaminare i verbali, e siccome spesso in Sicilia ci sono date che finiscono con il sovrapporsi, il Tribunale ha rinviato al 14 settembre, a 25 anni esatti da una vicenda criminale che vide assieme Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. C’erano loro due, assieme a Leoluca Bagarella, sull’auto dalla quale il 14 settembre 1992 furono esplosi a più riprese colpi di fucile contro l’allora commissario di Mazara Rino Germanà. Germanà riuscì a fuggire via, i boss si ritirarono maledicendo per quel delitto andato a monte.
Nella stagione delle stragi del 1992, Germanà doveva essere una delle vittime. Non sono mai emersi collegamenti, ma parlando di casi e coincidenze, non si può dimenticare che Germanà da capo della Mobile di Trapani firmò una indagine proprio sulla Banca Sicula, la banca della famiglia D’Alì. Graviano non è un soggetto estraneo alle dinamiche della mafia trapanese, proprio per il suo legame al latitante Matteo Messina Denaro: con il boss trapanese cominciò nel 1993 la sua latitanza, i due erano assieme in Versilia all’epoca dell’omicidio di don Pino Puglisi e ancora durante la stagione delle stragi del 1993. Graviano conosce quindi bene Messina Denaro e forse anche i suoi addentellati politici.
Intercettato dalla Dia, Graviano in carcere cita un nome che sembra essere quello di D’Alì, lo storpia, e parla del senatore D’Alia ma poi tra parole e movimento delle mani dice ancora ad Adinolfi: «Questo e quello che cercano sono come…». Guarda il suo compagno di ora d’aria e intreccia gli indici. L’immagine è stata ripresa dalla telecamera della Dia. Poche parole e pochi movimenti, i soggetti dei quali parla per lui sono persone che si sovrappongono. Scene che sono diventate elementi di prova in mano alla Dda di Palermo contro il senatore D’Alì. Graviano fa il nome del senatore ma invece di dire D’Alì dice D’Alia, e quando Adinolfi che non ha compreso bene gli chiede se parla di D’Alema, Graviano risponde, “no – dice – il paesano quello con gli occhi graziosi, questo con quello che cercano, guardami Umberto, guardami, sono come…” e a questo punto sovrappone le dita come a dire uno si sovrappone all’altro.
Per la Dda Graviano parla di D’Alì (non D’Alia, ex ministro del Governo Letta e che nulla ha a che spartire con Trapani) e Messina Denaro. Trascrizioni che sono state aggiunte a verbali e elementi processuali relativi agli affari tra appalti, mafia e politica che riguardano la provincia di Trapani, atti dove il nome di D’Alì è ripetuto parecchie volte.
In attesa che il processo per D’Alì arrivi in Cassazione, l’avvocato Rallo fuori dall’aula, nella dichiarazione pronunciata a commento dell’udienza, mostra di avere le idee chiare a difesa del suo assistito: “La produzione del verbale riguarda l’intercettazione della conversazione intercorsa tra un ergastolano, sottoposto al regime del 41 bis e detenuto dal 1994 che, colloquiando con altro detenuto, si confronta sui problemi politico-economici del nostro Paese. Non viene affatto captato il nome del Sen. Antonio D’Alì, bensì quello di altri uomini politici rispetto ai quali residua molta confusione e imprecisione per i ruoli istituzionali ricoperti, i titoli conseguiti e il contesto territoriale di provenienza”. Per il difensore “l’udienza non ha consegnato alcun elemento di novità rispetto al quadro probatorio chiaro e preciso delineatosi nei due gradi del giudizio di merito che si sono conclusi rispettivamente con una pronuncia assolutoria del Sen. Antonio D’Alì”.
L’accusa la pensa diversamente, e procede, non si ferma. Per la Dda di Palermo D’Alì sarebbe lo snodo di tanti affari della mafia siciliana, anche potrebbe essere lui il crocevia dei legami tra mafia e massoneria. D’Alì ha sempre negato l’appartenenza alle logge, al contrario dello zio omonimo, morto da qualche anno e che era uno degli iscritti alla P2 di Licio Gelli.
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