Caso Alpi-Hrovatin, non arrendersi all’assenza di verità
Doveva essere la presentazione di un libro, ma così non è stata. Il 6 luglio, nella sede della Federazione Nazionale della Stampa, Luciana Riccardi Alpi, mamma di Ilaria, ancora una volta ha chiesto verità sull’omicidio di sua figlia e dell’operatore Miran Hrovatin.
Una verità che sembrava più vicina dopo la sentenza della Corte d’Assise di Perugia del 19 ottobre scorso, che aveva portato a due risultati: dichiarare finalmente innocente Hashi Omar Hassan e far aprire alla Procura di Roma un nuovo fascicolo per falso in atto pubblico, calunnia e favoreggiamento.
Ma ora questa nuova inchiesta rischia d’essere archiviata perché la Procura, come si legge nelle motivazioni della richiesta: “è assolutamente consapevole di quanto sia deludente il fatto che oltre vent’anni di indagini, di processi e di accertamenti della Commissione parlamentare d’ inchiesta non abbiamo consentito di fare in alcun modo luce sui responsabili della morte Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Tuttavia ritiene che debba essere richiesta l’archiviazione del procedimento sia perché da un punto di vista formale sono già scaduti i termini delle indagini per il reato di omicidio, sia – e soprattutto – perché non vi è allo stato alcuna nuova ed ulteriore indagine che appaia idonea a conseguire risultati positivi”.
Un ammainabandiera consapevole, per dirla con le parole dell’avvocato Giovanni D’Amati, legale della signora Luciana.
Un atteggiamento, però, a cui è impossibile arrendersi. Impossibile anche se fare le indagini in Somalia non è semplice e anche se, nel corso degli anni e dei procedimenti collegati al duplice omicidio di Mogadiscio, i testimoni somali ascoltati si sono rivelati o inattendibili – e il primo della lista è proprio Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che aveva accusato Hashi – o incapaci di offrire notizie, perché davvero non sapevano nulla.
E per non rassegnarsi e opporsi alla richiesta d’archiviazione bisogna indicare l’oggetto delle investigazioni suppletive, che siano altri elementi di prova su cui indagare o il rivedere in una prospettiva diversa quelli già acquisiti.
Già in passato il rischio archiviazione aveva toccato il caso Alpi. Luciana continua la sua battaglia e, insieme a lei, quanti non si piegano all’idea che questo duplice omicidio si trasformi in un altro mistero italiano senza soluzione. “Qualunque cosa sarà decisa – ha detto il Presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti – si costruirà una rete per impedire l’archiviazione delle coscienze. A noi interessa la verità per avere una ricostruzione”. Non si può rimanere in attesa e basta: “Ci sono molte possibilità di impedire l’archiviazione di casi come questi – ha continuato Giulietti –perché è vero che ci sono i tribunali, ma c’è anche il mondo della comunicazione. E mi permetto di chiedere a tutti di riflettere su come si possa ulteriormente intervenire”.
Sembrerebbe quasi un invito di rito eppure, se si pensa alla vicenda di Hashi, questo è quello che è accaduto. A ricordarlo è Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai: “Se ci fossimo fermati alla verità giudiziaria, non avremmo avuto lavori come quelli di Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto?, che ha restituito libertà a un innocente. Al di là dei tribunali, abbiamo il dovere di raggiungere la verità”.
“Avevamo la percezione che fosse davvero un depistaggio. Dopo aver parlato in Inghilterra con Gelle ne ho avuto la certezza – interviene Chiara Cazzaniga – e pensavamo che, viste le motivazioni di Perugia in cui si parla di un depistaggio di ampia portata, si potesse fare un passo avanti. La richiesta di archiviazione ci rende molto tristi. Io ripartirò analizzando tutte le giornate che Gelle ha passato in Italia, perché questo ci può far risalire alla verità. Se c’è un punto da cui ripartire secondo me è lui: è quello che ha fatto nel nostro Paese, chi gli è stato attorno e chi lo ha aiutato a scappare”.
Fabrizio Feo, collega di testata di Ilaria, è netto: “Quando le motivazioni della sentenza di Perugia rivelano delle incongruenze palesi nelle indagini che si sono susseguite in tutti questi anni e indicano soggetti che hanno responsabilità precise, come si può accettare poi che nulla si muova? La parola depistaggio non se la inventa né Luciana Alpi né i giornalisti del Tg3. No: lo scrive la corte d’appello di Perugia”. Continua ancora Feo: “Il caso Alpi ricorda drammaticamente quanto è avvenuto per la strage di via D’Amelio. Sia in quel caso che in questo siamo di fronte a qualcosa di più complesso e articolato delle famose “menti raffinatissimi” di cui parlava Giovanni Falcone: siamo di fronte a una volontà preordinata che ha radici nello Stato. E dentro lo Stato possono avere radici non solo volontà preordinate, ma anche mancanze di volontà preordinate. La sentenza di Perugia mostra una cosa drammatica: che nel corso degli anni non c’è stata la volontà di scavare per far emergere alcune verità”.
Doveva essere la presentazione di un libro, si era detto. Tutto era nato perché è stato nuovamente editato “Esecuzione con depistaggi di Stato”, pubblicato per la prima volta nel 1999. Un’edizione, stampata precedentemente alla richiesta di archiviazione, integrata con le motivazioni della sentenza di assoluzione per Hashi, con una breve rassegna stampa e con un passaggio di Luciana, da lei stessa amaramente definito ingenuo, in cui si dichiarava certa che presto avrebbe avuto verità e giustizia dalla Procura di Roma.
Luciana è stanca. Eppure non si ferma neanche davanti alla delusione mista a rabbia con cui non fa sconti a nessuno: “Mi aspettavo che la gravità dei fatti accertati e denunciati nella sentenza dei giudici della Corte d’Appello di Perugia, provocasse un piccolo terremoto istituzionale dal Quirinale in giù… E credevo che i colleghi di mia figlia, cioè tutto il mondo del giornalismo, riportassero col dovuto rilievo la notizia di una sentenza di tale gravità. Non c’è stato niente di tutto questo. Nessuna reazione a livello istituzionale. Solo Rai 3 e qualche amico giornalista ha dato rilievo alla gravità dei fatti”.
Ci sono venti giorni per opporsi alla richiesta di archiviazione. Questa volta le cose sono più difficili. La Procura di Roma, nei mesi scorsi, ha lavorato al nuovo fascicolo ascoltando sia il sostituto procuratore che all’epoca dei fatti interrogò Gelle che il funzionario di polizia che si occupò di lui una volta arrivato in Italia. Un’attività dalla quale, a giudizio della stessa Procura, non sono emerse né condotte non conformi al diritto né ipotesi il reato. Cose che però, se fossero state rilevate, sarebbero comunque cadute in prescrizione.
Una conclusione amara che ancora di più rafforza la consapevolezza che non ci si può fermare alla verità giudiziaria, al chiedere giustizia nei tribunali. È necessario che tutto il mondo dell’informazione lavori affinché si arrivi verità, quella autentica, e non si lasci un nuovo buco nella storia del nostro Paese. Perché l’assenza di verità è un rischio che uno Stato democratico non può correre.
Trackback dal tuo sito.