Ricordo di Pio La Torre
Non ho avuto dimestichezza, né personale né politica, con Pio La Torre. L’ho conosciuto quando ancora ero molto giovane, in occasione della consegna della medaglia d’oro a tre compagni fondatori del partito, nella piazza del mio paese, Nicastro (ora Lamezia Terme). Volendo fare una cerimonia non banale, io e Maria Marafioti, moglie di Fausto Tarsitano, ci applicammo a compilare una breve storia del partito in Calabria (soprattutto Nicastro e Palmi), fino alla repressione fascista. E la leggemmo sul palco, con a fianco Pio La Torre, che ne fu molto ammirato. Di lui poi ho letto sui giornali; fino alla morte, tanti anni dopo.
Fui nominato difensore del Pci da Berlinguer, confermato da Natta, e poi da Occhetto. Mi costituii parte civile per il partito. La vedova di Pio, Giuseppina La Torre, aveva detto che tutta la vita di Pio era stata per il partito: e lei non intendeva costituirsi di persona, perché il partito rappresentava anche lei e i figli. La cosa ci commosse; ed io mantenni la promessa fattale di tenerla costantemente informata, anche con visite personali nella sua casa di Roma, dell’andamento del processo.
Fu lei, che ha sempre condiviso l’impostazione di metodo e di sostanza da noi dato al processo, a raccontarmi delle parole di Chinnici – di cui era amica – pochi giorni prima che anche lui venisse assassinato, sul fatto che ormai quegli omicidi, La Torre, Mattarella, erano “chiari”: «Si tratta di aspettare qualche settimana e saprà tutto».
Queste cose che aveva detto a me, le confermò nella sua deposizione al processo.
In quegli incontri tra me e lei, mi confidò un’altra cosa, particolarmente significativa. Ritengo che non sia una primizia per la vostra Rivista, perché devo averlo scritto e detto da qualche altra parte, forse in un convegno su Moro organizzato da Mario Almerighi a Trevignano, dove venne e parlò chiaro anche Galloni.
La confidenza fu questa. Giuseppina, dopo la morte del marito, era stata eletta deputata all’Assemblea regionale siciliana. In tale qualità istituzionale era stata negli Usa, non ricordo dove e con quale compito, ma che non riguardava però la morte del marito. Mentre cenava (o pranzava) in un ristorante di livello, le si era avvicinato un compitissimo cameriere, chiedendole se fosse la signora La Torre. Avutane conferma, le aveva detto che in un ambiente accanto vi erano dei signori che le volevano rendere omaggio. Giuseppina si era alzata e lo aveva seguito. In una saletta appartata l’aspettavano tre signori inappuntabilmente vestiti, uno dei quali al suo apparire aveva fatto un passo avanti, inchinandosi leggermente e baciandole la mano. Guardandola poi amichevolmente negli occhi, aveva espresso le loro sentite condoglianze per la morte del marito. E dopo un attimo di sospensione, sempre guardandola negli occhi, aveva detto: «Signora, volevamo dirle che non è cosa nostra». E con nuovi inchini, l’incontro era finito lì.
Come affrontò il processo la difesa (uso “processo” in senso atecnico, volendo riferirmi anche alla fase delle indagini)?
Non avevo una tesi da confermare. L’esperienza del processo Moro, e prim’ancora del processo Valpreda, mi avevano insegnato che occorreva studiare, leggere libri (non giuridici), giornali, carte e carte processuali; sentire con mente aperta persone, non importa di che livello, che avevano cose da dire e da insegnare. Questo metodo tornò utile soprattutto quando, inaspettatamente, i pm di Palermo chiesero di sentire alcuni dei personaggi più in vista dei vertici del partito, tra i quali Pietro Ingrao che volle sentire da me che ne pensavo. Avevo ancora idee abbastanza confuse. Per cui gli dissi che secondo me i pm volevano capire perché e con quali obiettivi Pio La Torre fosse tornato in Sicilia dopo l’esperienza nei massimi organi centrali del partito a Roma. E questo per individuare quali forze potessero temere per quel suo ritorno, fino al punto di trovare vantaggioso o necessario eliminarlo.
La sorpresa venne con il deposito della richiesta di rinvio a giudizio, nella quale un apposito paragrafo era intitolato, e dedicato alle “prove”, della cosiddetta “pista interna” dell’omicidio La Torre. Si sosteneva, cioè, che La Torre era stato fatto fuori dal connubio cooperative “rosse” e mafia, perché contrario a quel sistema. L’eco della stampa, anche internazionale, fu vastissima. La procura, a firma anche di Falcone, non faceva nomi di responsabili perché, a suo dire, ancora non si era potuti arrivare a questo; ma politicamente si diceva, nell’opinione pubblica che seguiva con comprensibile interesse queste cose, che l’indice era puntato verso l’ala cosiddetta “migliorista” del Pci, e in particolare verso Emanuele Macaluso, considerato il nume protettore delle cooperative “rosse”. Né valeva ricordare che anche Pio La Torre era “migliorista”, ed anche uno degli amici più stretti di Macaluso. I pm di Palermo avevano lanciato una palla che, rotolando a valle, ingigantiva, al di là di ogni necessaria prudenza.
Mi stabilii, quindi, a Palermo, e vi soggiornai per mesi. Il partito non pose mai limiti, né materiali né funzionali, alla mia inchiesta. Mi fu data, a livello centrale e a quello regionale (segretario era allora Pietro Folena), la più ampia disponibilità. Solidarietà e disponibilità piene mi vennero anche da Vincenzo Vasile, giornalista acuto, libero e di grande esperienza che dirigeva in quel periodo, con spirito di sacrificio, un giornale glorioso ma economicamente agonizzante come L’ora di Palermo. Pagando una notevole somma, il partito mi fece subito, come avevo richiesto, copia dell’enorme incartamento depositato dai pm per i processi “riuniti” Reina, Mattarella, La Torre. Altre copie, finanche di interessantissimi appunti di Pio La Torre, trassi dall’Istituto Gramsci di Palermo. E con esse, libri, stampa e pubblicazioni varie sulla vicenda. Il tutto – sia detto per inciso – rielaborato con fatica e sapienza e catalogato con il contributo anche del Senato della Repubblica, è consultabile in apposito Fondo dell’Archivio Sergio Flamigni. Le copie del processo mi furono chieste anche dal prof. Sergio Mattarella per la difesa di parte civile della famiglia in quel processo.
Ma torniamo al mio lavoro specifico.
Dopo aver letto a sufficienza per farmi un quadro ampio delle vicende significative per il processo (e con l’aiuto fondamentale per capire le cose di Sicilia datomi da Donna Rita Bartoli Costa e dall’avv. Michele Costa, moglie e figlio del procuratore Gaetano Costa nel cui processo eravamo pure costituiti parte civile, e da un altro grande amico di Pio la Torre, Mimì Bacchi) mi applicai a fare un’indagine nell’ambito del partito di Palermo, sentendo personalmente e distintamente vari esponenti di varie correnti, dagli “ingraiani” ai “miglioristi”.
Poiché la lettura analitica delle carte processuali, che procedeva con grande lena, mi aveva convinto che le cosiddette prove della “pista rossa” erano inesistenti, e un vantato “testimone” era solo un calunniatore, indotto a seminare sospetti, nel miglior caso, da un’aspettativa di carriera frustrata, e poiché, inviato al Congresso, mi pare Federale, del partito che si teneva in quel torno di tempo, avevo sentito che esponenti di punta dell’ala ingraiana attaccavano gli altri sulla base della “pista rossa” messa in campo dai pm, chiesi la parola per un breve intervento, avvertendo che la “pista rossa” non aveva alcun riscontro nelle carte del processo, e che quindi era inammissibile che si facesse lotta politica all’interno del partito facendo leva su di essa.
Sia detto per inciso che personalmente io ero arrivato a Berlinguer dalla condivisione della linea di Ingrao; e non avevo alcuna “simpatia” per i “miglioristi”, salvo che per la figura di Amendola che, impropriamente e riduttivamente, veniva indicato come capostipite di quella. Ma non ero lì per aiutare questa o quella tendenza; e sentivo forte l’imperativo di evitare un uso indegno e strumentale di un’invenzione processuale, come la “pista rossa”.
Ho dimenticato di dire che, appena arrivato a Palermo, e cioè prima delle cose che sto raccontando, mi ero recato in visita di cortesia da Falcone. Fui ricevuto con altrettanta cortesia. Era presente anche Giuseppe Ayala. Chiesi a Falcone se quella accusa della “pista rossa” riguardava singole persone appartenenti alle cooperative o iscritte al partito, o se invece coinvolgeva le strutture di appartenenza. Mi rispose che riguardava un rapporto organico con quelle strutture. Gli chiesi: a che livello, nazionale o locale (come detto, erano stati sentiti come testimoni i vertici del partito a Roma). Mi rispose: nazionale no, locale sì. Il breve incontro si era concluso con la mia esortazione ad andare fino in fondo con l’inchiesta, accertando le responsabilità e facendo nomi e cognomi degli indegni. Perché l’interesse del partito era fare pulizia in modo radicale.
Ma, come detto, l’esortazione era rimasta inascoltata. Nomi e cognomi non erano stati fatti, e la “pista rossa” si era rivelata una molto poco meditata conclusione di un’accusa gravissima.
Il nostro lavoro mise capo ad una memoria analitica, sulla base della quale il giudice istruttore dell’epoca bollò come inesistente la “pista rossa”, e rinviò gli atti ai pm perché procedessero per calunnia nei confronti del testimone fasullo. Non si è avuta mai notizia che un procedimento del genere, che era doveroso, sia stato mai instaurato.
Nella memoria non ci limitavamo alla “pista rossa”, ma esaminavamo e indicavamo una serie di altre “piste” che non erano state seguite, comprese quelle che partivano da esami “balistici” non sviluppati. Erano “piste” che andavano oltre la solita cupola mafiosa, e puntavano verso mandanti di ben altro livello. Ci si riallacciava anche alle indagini avviate da Gaetano Costa, e compiute da Chinnici, che non si sapeva dove fossero finite (e si doveva trattare di quintali di carte), malgrado la loro assoluta rilevanza, comprovata, purtroppo, dalla morte dei due magistrati.
Queste cose furono anche oggetto di esposto al Csm, che interrogò Falcone, il quale non dette risposta esauriente in proposito.
Il processo Reina, Mattarella, La Torre iniziò ad aprile 1992 contro i soliti noti della solita nota cupola mafiosa. E la linea della nostra difesa e solo di noi, della parte civile Pci-Pds (nel 1991 era nato il Pds, ed Occhetto aveva confermato la procura a me, che non avevo aderito alla nuova formazione), convintamente ripresa da L’Ora di Palermo, fu che lì c’erano gli esecutori, ma mancavano i mandanti di quei crimini politici.
Occorre dire che, sebbene in modo del tutto riservato, Falcone non era rimasto insensibile alle nostre indicazioni, se – come risultò dopo la sua morte da un foglietto di appunti da lui redatto – il 18 dicembre del 1990 aveva annotato di aver suggerito inutilmente al pool della procura di fare indagini su Gladio, sulla base delle nostre richieste.
Siamo ora alle ultime battute di questo mio – lo so! – troppo lungo e “irregolare” contributo.
È noto che nel 1988 Alessandro Natta, l’ultimo vero segretario del Pci, eletto nel 1984 quando dopo la morte di Berlinguer il partito aveva raggiunto il 33,3% di voti alle elezioni europee, mentre si trovava in ospedale per un infarto, venne “dimissionato” a sua insaputa dalla nouvelle vague di Occhetto e c. che si erano così impossessati del partito, e ne prepararono quelle mutazioni che, mano a mano, avrebbero cambiato nome e natura allo stesso.
In quel nuovo clima, mentre io, il collega avv. Armando Sorrentino, Vincenzo Vasile, Pietro Folena e altri continuavamo coerentemente la nostra battaglia politico-giudiziaria, apparve su L’Unità una prima intervista al prof. Pino Arlacchi, grande amico di Rocco Chinnici e rimasto traumatizzato dalla spaventosa morte di lui alle soglie delle rivelazioni che stava per fare (testimonianza, non soltanto a me, di Donna Rita Bartoli Costa, la cui casa amicalmente frequentava): intervista nella quale l’impegnato studioso del fenomeno mafioso affermava perentoriamente, e senza che L’Unità ne prendesse le distanze, che al di là della nota cupola mafiosa dei “soliti” noti non esisteva altro livello né altri mandanti.
L’intervista suonava chiaramente coma una smentita di tutta la linea di difesa da noi portata avanti con piena e costante condivisione del Pci-Pds. Ragion per cui chiamavo il direttore del giornale, organo ufficiale del Pci-Pds, Walter Veltroni, e gli facevo presente il fortissimo disagio che la cosa ci aveva procurato, e l’elevatissimo pericolo cui ci esponeva, additandoci come un gruppo isolato, che non aveva più la solidarietà del partito, e conduceva una battaglia accanita nella quale il partito non si riconosceva.
La risposta di Veltroni fu cortese, permeata dal nuovo sentire della nouvelle vague. Mi disse che non c’era problema: avrebbe mandato un giornalista ad intervistare anche me. Per chiudere la breve conversazione, gli dissi che non era una questione di interviste pro e contro, per dimostrare che L’Unità era un giornale democratico; ma del venir meno di una indispensabile solidarietà in corso d’opera, cioè in un processo di quella fatta in cui noi rappresentavamo il partito: cosa che chiunque avrebbe interpretato, e la mafia prima di tutti, nel senso che noi non avevamo più la copertura del partito. Era dunque la condizione ideale per farci letteralmente fuori.
A distanza di breve tempo, se ricordo bene, L’Unità ospitò nuove dichiarazioni dell’Arlacchi sulla stessa linea. Questo, ed altre notizie che mi erano pervenute casualmente, mi indussero a trarre le conclusioni. Dopo anni di lavoro fui così costretto a dimettermi.
Il Pds mi sostituì con il prof. Carlo Federico Grosso, eminente giurista, che però mi fu detto si era recato giù a Palermo per il processo una o due volte in tutto.
Qui finisce una storia raccontata a modo mio, ma su dati concreti e reali.
La verità è che la materia meriterebbe un numero unico della Rivista, perché la mia impressione – posso, e spero, di sbagliare – è che la lotta alla mafia, che ha segnato successi apprezzabilissimi nei riguardi di organizzazioni criminali paurose e anche nei riguardi di quelle zone grigie contigue di cui parla Pignatone nel suo bel libro sulla ‘ndrangheta intitolato Il contagio, sui grandi crimini politico-mafiosi, quelli che, ricordando le parole dei tre “signori” americani a Giuseppina La Torre, io chiamo «omicidi per mafia», distinti dagli «omicidi di mafia»: su quel tipo di crimini la verità è ben lontana. E non soltanto per l’obiettiva, estrema difficoltà di scoprirla, viste anche le tante morti disseminate su quel cammino; ma anche – ed è questo l’aspetto che più mi turba – per il diffondersi e prevalere di un’antimafia di maniera, non più soltanto opportunista come la qualificava Sciascia, ma frutto di ignoranza mass-mediatica. Lo studio e la fatica non sono più valori radicati e praticati. Ne gioiscano Lor Signori, nazionali e internazionali!
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