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A proposito di reddito di cittadinanza

Luigi Lochi il . L'analisi

reddito-di-cittadinanzaSiamo davvero sicuri che il cosiddetto reddito di cittadinanza sia la soluzione più efficace a dare dignità ai tantissimi giovani che oggi, specialmente nel sud, si ritrovano inoccupati, disoccupati, o che non studiano né lavorano? Una simile proposta, che sul piano politico-elettorale è indubbiamente proficua, sul piano pratico è la negazione della dignità della persona. Un conto è aggredire le situazioni di povertà con strumenti di integrazione del reddito, altro è rispondere alla domanda di lavoro. Il reddito di cittadinanza “condanna” a sopravvivere non certamente a vivere. Non sostiene la dignità della persona, al contrario la nega. Non libera la cittadinanza ma la assoggetta ad uno stato di minorità. E’ la sconfitta della politica, che viene meno alla sua responsabilità di “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E’ l’affermazione di quella “ideologia globale che nega la possibilità di lavoro per tutti, nel tempo della robotica e dell’informatica”. Una ideologia meta-democratica, in quanto – di fatto – fonda “una  società dello scarto, magari scambiata come solidarietà”. Muovendo dalla premessa che la innovazione tecnologica comporti automaticamente una contrazione della forza lavoro, essa giunge a considerare naturale la formazione di una larga platea di inoccupati, lo scarto appunto dei nuovi processi produttivi, ai quali comunque si garantirebbero condizioni minime di sopravvivenza. La marginalità diventa ,allora, l’altro nome del reddito di cittadinanza. Un bel paradosso! Oltre ad essere confusa (perché mette sullo stesso piano le misure di contrasto alla povertà e quelle assistenzialistiche), paradossale (perché di fatto nega la dignità della persona), semplicistica e demagogica, questa soluzione rischia di rivelarsi anche profondamente iniqua perché il suo eventuale carattere universale porterebbe ad includere tra i beneficiari anche coloro che vivono condizioni di partenza più favorevoli.

Il reddito di cittadinanza è la risposta sbagliata ad un problema vero: il lavoro.

Che fare allora? Come riconnettere gli esclusi alla cittadinanza del lavoro e prima ancora alla politica? Come sottrarli ai miraggi della meta-democrazia? Come far percepire loro lo “Stato amico”?

Intanto occorre chiarire di chi stiamo parlando. Il tema della promozione di nuove opportunità di lavoro non può essere affrontato in termini generalistici. Le cifre della inoccupazione, specialmente giovanile, non rappresentano una massa informe. I giovani “telemaco”, di cui oggi si parla speso e che sono i veri protagonisti del fenomeno delle nuove start-up, rischiano di essere semplicemente quelli che trovano nella ricchezza materiale e soprattutto culturale della propria famiglia un valido trampolino per il loro “volo”, che per questo si rivela meno folle. La maggioranza dei giovani delle periferie e del Mezzogiorno arrancano, senza il welfare minimalista assicurato dalle risorse (poche) delle proprie famiglie sperimenterebbero livelli di sussistenza ancora più precari, e non dispongono di un sufficiente capitale culturale che dia loro la possibilità di volare, la spinta e il coraggio di scommettere sulle proprie risorse. Ciò di cui hanno urgente bisogno, appunto,  è un capitale di competenze, di relazioni, di idee, assieme ad un capitale di fiducia che allenti e sconfigga lo scoramento, la disillusione, la tristezza.

Non di una rendita, ma di un percorso di accompagnamento verso un approdo concreto di autorealizzazione, costoro avrebbero bisogno. Un percorso, magari, che preveda anche un “prestito d’onore”, concesso senza alcuna garanzia che non sia quella di una buona idea. L’esperienza c’è già, ma come tutte le iniziative efficaci la si è voluta relegare ai margini, considerarla alla stregua di una misura di nicchia, quando al contrario aveva tutte le premesse perché fosse promosso un capitalismo popolare, diffuso.

Nella metà degli anni novanta intorno ad una piccola struttura pubblica (Imprenditorialità Giovanile), nata per gestire le prime misure innovative in tema di promozione dell’autoimprenditorialità, Giuseppe De Rita, Carlo Borgomeo e Aldo Bonomi declinarono secondo linguaggi e contenuti nuovi una modalità di accompagnamento dei processi di sviluppo delle comunità la cui intuizione si deve ad Adriano Olivetti. Attraverso le “Missioni di sviluppo” e gli animatori di comunità si tentava di riannodare le relazioni comunitarie ( le reti corte) e si tentava di ripristinare il legame con le Istituzioni (le reti lunghe) intorno alla “domanda di sviluppo” che la comunità attraverso i suoi attori veniva accompagnata a costruire. Alla base di questa esperienza c’era la convinzione che senza l’animazione della domanda di sviluppo,  l’offerta delle opportunità – da sola – non fosse sufficiente ad avviare processi di sviluppo. Domanda ed offerta dovevano incontrarsi fuori dai tradizionali circuiti, spesso strumentalizzati, degli “addetti ai lavori”.

In concreto, questi processi di comunità comportano tre cose: 1. stare sul territorio, stanare soprattutto gli innovatori, i giovani che vogliono scommettere sulle loro potenzialità, rischiare il proprio talento, i propri “principi attivi”, e mettere fuori gioco “gli estrattori di rendita” che bloccano ogni vera ri-nascita; 2. relativizzare l’importanza delle procedure per concentrarsi sulla attuazione di pochi e chiari obiettivi strategici; 3. valutare i risultati non più in termini di quantità di risorse impegnate, ma di qualità del lavoro prodotto.

Si comprende come una risposta di questo tipo, che esige responsabilità e reciprocità, rinvia ad una visione politica alta, che manca del tutto alla semplicistica, demagogica e ingiusta misura del cosiddetto reddito di cittadinanza.

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